giovedì 24 settembre 2009

"Memorie" di Concetto Gallo, secondo Turri, successore di Canepa. (6a parte)


Storia del Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, raccontata dal comandante dell'EVIS, secondo Turri, successore di Canepa, in una intervista poco nota del 1974.

(Intervista di E.Magri, 1974 - Riproposta nel 2009 sul settimanale "Gazzettino di Giarre" dal Prof. Salvatore Musumeci")

"All’alba del 29 dicembre ’45, cinquemila militari italiani circondarono Piano della Fiera. Furono tenuti in scacco da cinque evisti per un giorno intero. Cadde il giovane indipendentista Diliberto e il sottoscritto finì prigioniero".


«Nella seconda metà del 1945, mentre io mi trovavo nella clandestinità sulle montagne attorno a Caltagirone, alcune componenti politiche dell’indipendentismo avevano preso contatto con esponenti dell’Italia per la ricerca di una soluzione pacifica che escludesse o che evitasse lo scontro armato. E in effetti qualcosa di sostanziale riuscirono a ottenere. Un giorno qualcuno mi avvertì che mantenessi calmi i miei uomini perché qualcosa a Roma si stava muovendo in senso molto favorevole a noi. E in effetti, all’incirca verso il mese di novembre del 1945, l’allora il ministro degli Interni, Giuseppe Romita, inviò, espressamente, un aereo militare a Catania con il compito di portare a Roma una rappresentanza dell’indipendentismo.

Su quell’aereo si imbarcarono alcuni esponenti prestigiosi del Mis. C’erano l’onorevole Bruno di Belmonte, mio padre, Ulisse Galante, Giuseppe Bruno e l’avvocato Pontetoro. Riunitasi a Roma insieme con altri elementi del Mis, la commissione presentò a Romita un progetto di armistizio che prevedeva il rientro nella legalità di tutti i giovani dell’Evis, la libertà di parola, la riapertura delle nostre sedi, e così via. Romita fu largo di promesse. Promise anche il riconoscimento di una bandiera siciliana, la bandiera giallo-rossa con una coccarda tricolore, ma i più intransigenti indipendentisti saltarono per aria “No, la coccarda no”, dissero sdegnati. Fu mio padre, con molto buon senso, che accettò la proposta. “Ma sì”, disse. “La coccarda tricolore nella bandiera siciliana può andare benissimo”, concluse.

A questo colloquio ne seguirono, tra Palermo e Roma, alcuni altri nei quali, sia pure non ufficialmente, ci si occupava del problema del fatto compiuto: vale a dire dell’esistenza dell’Evis, del destino degli uomini che erano finiti nella clandestinità. Accordi precisi non ne vennero fuori. Si stabilì a un certo punto che una volta entrato in vigore quella sorta di statuto tutto dovesse ritornare come prima, che gli uomini sarebbero scesi dalle montagne, avrebbero deposto le armi e “in un modo o nell’altro sarebbe stata trovata una soluzione”.

Era questa soluzione che io stavo aspettando nella prima metà del mese di dicembre 1945 sulle montagne di Caltagirone. I messaggi che mi venivano dal Movimento erano improntati al migliore ottimismo e invitavano, costantemente, a non “creare disordini”. Per questa ragione, vale a dire per non turbare i “pour parler” in corso con errori, bloccai a Nicosia e a Pietraperzia una colonna di circa duecento giovani che doveva ricongiungersi al mio gruppo.

Ma il ventisette dicembre Guglielmo di Carcaci mi inviò un messaggio. “Stai attento”, diceva il biglietto, “perché in questi giorni le zone dell’Etna e quelle di Catania pullulano di soldati. Ci sono molti movimenti strani”.

Il giorno dopo, il ventotto dicembre, un gruppo di contadini mi avvertì che Caltagirone era diventata un vero e proprio presidio e che c’erano anche dei carri armati. La mattina del 29 dicembre, all’alba, raggiunsi la sommità di Piano della Fiera dove c’era il nostro accampamento. La zona era quasi tutta circondata dalla nebbia.

I giri d’orizzonte col binocolo non dicevano granché. Poi, alle sei e mezzo, arrivò la prima bordata di mortai. La battaglia era già iniziata. Noi, come dicevo, eravamo una sessantina in tutto, compreso un gruppo di briganti che durante la notte si era avvicinato al nostro accampamento per rifocillarsi. Inoltre mancava la pattuglia di cinque uomini che la notte precedente era stata mandata in avanscoperta.
Non appena si diradò la nebbia, affiorò chiara, in me e poi negli altri, la sensazione che era arrivata la nostra ultima ora. L’accerchiamento nei nostri confronti era già stato effettuato. Ma, convinto che la guerra sarebbe dovuta continuare anche dopo di me, operai in modo di impegnare le truppe e di fare sganciare il grosso dei miei uomini. Mentre io con cinque giovani, Amedeo Boni, Emanuele Diliberto, Filippo La Mela e due contadini, mi portavo verso le truppe, carabinieri, polizia, soldati, per impegnarli frontalmente, e dar così modo al resto degli uomini di arretrare, ordinai al resto della compagnia di sganciarsi e di abbandonare la zona.

La battaglia cominciò a diventare aspra. Le truppe cercano di creare attorno a loro la terra bruciata. I cinquemila uomini, al comando dei cinque generali, cominciarono a sparare con una intensità inaudita: come se di fronte a loro avessero avuto un vero e proprio esercito. In effetti a questa “credenza” avevamo contribuito anche noi inviando al ministero degli Interni, nei mesi precedenti, rapporti, su carta intestata dell’Ispettorato generale di polizia, nei quali si drammatizzava enormemente la situazione e dove si parlava di basi, di ingente numero di armi e materiali.
I miei uomini operano lo sganciamento attorno alle due del pomeriggio. A quell’ora contro cinquemila uomini che, come scrissero più tardi i giornali, “sparavano migliaia e migliaia di colpi” non c’ero che io e altri quattro. La bandiera giallo-rossa garriva al vento e più tardi, quando le truppe si avvicinano alla nostra postazione, era l’obiettivo principale dei tiratori. Verso le due e trenta del pomeriggio, sistemai un cecchino al mio fianco sinistro per impedire una sortita da parte delle truppe. Ma l’uomo, il giovane Diliberto di Palermo, commise un errore. Per raggiungere una posizione più avanzata si spostò e nel tragitto venne colpito a morte.

All’infernale fuoco delle truppe noi rispondemmo alla meglio con le nostre armi in dotazione: fucili, mitra e bombe a mano. Ormai stava per calare la sera e le nostre munizioni erano finite.

Sembrava che la morte non mi volesse. Una pallottola mi colpì al petto ma fu deviata da una medaglietta che tenevo nel taschino del giubbotto. Più tardi una raffica di mitra mi sfiorò il fianco bucando il giaccone e lasciandomi indenne. Poi una fucilata mi sfiorò all’altezza del cavallo dei pantaloni. Anche questa non mi colpì. Un colpo mi portò via il berretto e mi colpì lievissimamente alla testa.

Fu il momento in cui capii che non c’era più niente da fare. Che l’unica cosa era morire là sul quel pianoro, insieme con i miei amici, i miei uomini. Ordinai a Boni e a La Mela di mollare e di arrendersi. Boni rifiutava di abbandonarmi e io glielo imposi. Restai solo. Fu allora che staccai la bomba a mano che tenevo legata alla cintura, tirai fuori la spoletta e me la buttai tra i piedi nella speranza di saltare per aria. La bomba non esplose.

Ormai era quasi sera. C’era un sibilo. E una bomba, una granata, esplose davanti a me. Il buio della morte arrivava col buio della serata? Macché. Pochi minuti dopo mi risvegliai. Accanto c’era un maresciallo dei carabinieri, il maresciallo Manzella, che, come avrei saputo più tardi, mi aveva salvato la vita. Trovandomi infatti svenuto, il milite della pattuglia che mi aveva scoperto aveva già puntato il mitra contro di me e stava per lasciare partire una raffica quando intervenne il maresciallo dei carabinieri Manzella. E lui che puntando a sua volta il mitra contro l’uomo gli disse: “Se tiri contro quell’uomo ti ammazzo”.

Ma non ebbi molto a gioire, almeno per qualche tempo, di essere scampato alla morte. Ammanettato come un brigante, venni caricato su un camion e portato a Catania dove, immobilizzato ancora di più, mani e piedi, venni buttato dentro una cella, nella quale sono vissuto per due giorni senza bere e mangiare.

Quanto al resto dell’armata italiana, continuò a bombardare il Piano della Fiera fino all’indomani mattina alle sei. Il generale Fiumana, uno dei cinque generali che comandavano le truppe, incontrando più tardi mio padre gli tese la mano dicendo: “Ho avuto l’onore di stringere la mano a suo figlio”. Così finì la guerra per l’indipendenza della Sicilia».

Commento del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

Il 29 dicembre 1945 avvenne, dunque, l’ultima battaglia dell’Evis. I 56 guerriglieri indipendentisti furono completamenti accerchiati da oltre 3000 militari italiani delle divisioni “Sabauda” e “Aosta”. Concetto Gallo, vista impossibile ogni resistenza, licenziò i suoi “evisti”, per evitare loro una morte sicura; ma due di essi, lo studente liceale Amedeo Bonì di Santa Teresa di Riva e il contadino Giuseppe La Mela di Adrano, vollero rimanere con lui, votandosi anche alla morte pur di non lasciare solo il loro amato comandante.

Nella sparatoria che si verificò, ci furono due vittime, il giovane Diliberto e l’appuntato dei Carabinieri Giovanni Cappello di Santa Croce Camerina. Ma non fu il mitra di Concetto Gallo ad ucciderlo, perché i suoi proiettili erano di calibro 8,8, mentre il colpo fatale risultò all’autopsia di calibro 6,5, che era quello dei moschetti dei Carabinieri. Gallo fu perciò fatto prigioniero con i due giovani evisti e sarebbe stato scarcerato soltanto dopo la sua elezione a Deputato alla Costituente il 2 giugno 1946.

È interessante il contenuto della nota riservata, datata 4 marzo 1946, del Ministero dell’Interno al Ministro della Guerra e per conoscenza alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Veniva data notizia, infatti, di un probabile colpo di mano che i guerriglieri dell’Evis, sfuggiti all’assedio di San Mauro, avrebbero voluto attuare al fine di liberare dal carcere, il loro Comandante Concetto Gallo e gli altri esponenti separatisti ivi detenuti. Episodio, questo, che fa comprendere quanto alto fosse il prestigio di Gallo e come i giovani dell’Evis fossero ancora motivati ed attivi.

La loro voglia di battersi veniva, però, sapientemente trattenuta dai dirigenti separatisti che erano a conoscenza delle trattative in corso, tra gli “esuli” di Ponza e il Ministro Romita.

Per un ventennio circa, Concetto Gallo subì processi penali e civili scaturiti, direttamente ed indirettamente, dalla sua attività di Comandante dell’Evis, con un susseguirsi di assoluzioni e di condanne. Vale la pena di ricordare che nel dibattimento del 26 ottobre 1950, in Corte d’Assise di Catania, il Dr. Salvatore Quattrocchi Pm, si lasciò andare ad alcune attestazioni di ammirazione per la figura di Concetto Gallo, considerandolo un combattente per il riscatto della Sicilia, bistrattata, impoverita e degradata, che misero in serio imbarazzo il Presidente della Corte.

In quella occasione, l’imputato Gallo era contumace, ed il Mis era in piena crisi. Quindi, la presa di posizione del Pubblico Ministero dimostra come la cultura indipendentista fosse ancora presente nella realtà siciliana, a prescindere dalle fortune elettorali o politiche del Partito Separatista e dei suoi esponenti più in vista.

A Monte San Mauro, Concetto Gallo fece erigere una stele (con base e forma triangolare che richiama la Sicilia), per ricordare la gloriosa battaglia e onorare tutti gli evisti morti per la “causa siciliana”. Purtroppo, mani ignote ne hanno asportato la lapide mutilandone la sacralità.

(6. Continua –“Memorie” di Concetto Gallo, da un’intervista di E. Magrì, 1974)

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