venerdì 18 settembre 2009

"Memorie" di Concetto Gallo, secondo Turri, successore di Canepa. (5a parte)


Storia del Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, raccontata dal comandante dell'EVIS, secondo Turri, successore di Canepa, in una intervista poco nota del 1974.

(Intervista di E.Magri, 1974 - Riproposta nel 2009 sul settimanale "Gazzettino di Giarre" dal Prof. Salvatore Musumeci")

Quarantotto ore con Giuliano: "nell’estate del 1945, a Ponte Sagana, incontrai il re di Montelepre"


«Esposi a Lucio Tasca la mia idea di parlare con Giuliano, al fine di garantirci nella eventualità di una sistemazione dei giovani dell’EVIS nella sua zona. Tasca rise: “Sì ora fai il numero di telefono e ti risponde Giuliano”. Lo lasciai e insieme con Guglielmo di Carcaci effettuammo un giro nelle sezioni alla ricerca di un contatto utile a fare arrivare un messaggio a Giuliano.

Un paio di giorni più tardi mi indicarono la zona dove operava Giuliano: Ponte Sagana, e partii. In auto eravamo in quattro: io, Guglielmo di Carcaci, Stefano La Motta, il corridore automobilista, e un certo Pietro Franzoni. Arrivati a Ponte Sagana, in base alle indicazioni avute, dissi loro di fermarsi, di lasciarmi, di ripartire e di ritornare due giorni dopo. M’incamminai e dopo mezz’ora lo incontrai.

“Chi vi manda qui?”, domandò il giovane. “Mi chiamo Concetto Gallo, sono indipendentista, il comandante dell’Evis”, risposi. E aggiunsi: “E voi chi siete?”. Rispose: “Giuliano sono. Salvatore Giuliano”. Eravamo a Ponte Sagana, sulla strada Palermo-Trapani, un giorno del mese di agosto 1945. Era la prima volta che vedevo Turiddu Giuliano.

Giuliano era solo. Non era vero che andasse sempre circondato dai suoi uomini. Agiva sempre da solo. L’intesa fu quasi immediata. Lui disse di conoscermi “di fama”. A poco a poco si raggiunse la completa fiducia reciproca. Tanto è vero che a un certo punto della notte mi disse: “Ora io dormo un’ora e vossia fa la guardia. Poi, quando io mi sveglio, si appisola vossia”. E mi diede il mitra. Poco dopo sentii un rumore, lo svegliai ma lui, sicuro: “Vossia non si preoccupi: dev’essere stata una lepre”.

Di che cosa parlammo con Giuliano? Per la verità all’inizio parlai soltanto io. Feci quello che si dice l’indottrinamento. Cercai di spiegargli, con parole acconce, in modo che lui le potesse capire, che cosa aveva rappresentato l’Italia, l’unità, per la Sicilia. E cominciai sin dai tempi di Verre. I saccheggi, le spoliazioni, le distruzioni, le amarezze. Gli portai altri esempi: “Hai mai sentito parlare dei cantieri Florio? Ebbene quei cantieri furono chiusi quando, con l’unità d’Italia, l’industria cantieristica di Florio divenne la Florio-Rubattino”. E lui: “Ah, sì”. “Esisteva in Sicilia una grande industria di ceramica che aveva 400 operai. Quell’industria venne acquistata dalla Ginori e subito chiusa. Garibaldi? Anche Garibaldi tradì i siciliani”. Alla fine lui mi disse: “Ma allora che cosa ci hanno insegnato?”. E io: “Il falso”.

Poi gli esposi lo scopo della mia visita, che avevo cioè da sistemare i giovani dell’Evis rimasti sbandati dopo l’eccidio di Randazzo e la morte del comandante Canepa.

Naturalmente si parlò anche di operazioni. Io ero propenso per un allargamento della lotta nella zona occidentale. Lui rispose: “Qui no”. E mi spiegò le ragioni. Che erano queste: trattandosi di zone brulle sarebbe stato difficile un vero e proprio rifornimento per l’esercito. Infatti lui, di problemi, sotto questo profilo, non ne aveva in quanto la sua banda si riuniva solo occasionalmente; per il resto, infatti, gli elementi di Giuliano vivevano come pacifici contadini.

Quindi lì, a Partinico, no. Per il resto la collaborazione sarebbe stata stabilita caso per caso. È assolutamente falso, ignobilmente falso, che io abbia promesso a Salvatore Giuliano la immunità per tutto quello che aveva commesso. È falso perché sarebbe stato sciocco, stupido, controproducente fare una simile promessa.

A un certo punto di quelle quarantotto ore in cui noi due siamo stati insieme mi raccontò la sua vera storia. E fu alla fine di quel racconto che io gli dissi questo: “Senti, Turiddu, io non ti posso promettere nulla. O perlomeno non molto. Ma questo che ti dico te lo posso promettere, sono autorizzato a prometterlo anche a nome degli altri i quali, se io domani dovessi morire, manterranno la mia parola. Io ti prometto che, se tu in questa lotta ti comporterai bene, dimenticando tutto il resto e guardando all’ideale dell’indipendenza, soltanto a quello, ti prometto che se vinceremo noi avremo una giusta considerazione per te e tu sarai giudicato per quelle che sono le tue vere colpe”.

Era un discorso tra uomini. Onesto, tra due latitanti. Gli avevo detto, infatti: “Vedi, tu sei qua sopra le montagne per i tuoi motivi; noi siamo sulle montagne per altri motivi. Noi potevamo stare benissimo nelle nostre case. Invece abbiamo deciso di batterci per un ideale di libertà e di indipendenza. Libertà e indipendenza che se la Sicilia avesse avuto prima, avrebbero inciso sul suo sviluppo economico e, certamente, tu, oggi, non saresti qui, in questa situazione”.

Con Giuliano, dunque, cercai di trovare un’intesa su un ideale e non una complicità mafiosa. Certo, molti hanno parlato di rapporti tra indipendentismo e mafia. E i rapporti ci furono indubbiamente. Ma furono rapporti cercati più dalla mafia che dagli indipendentisti.

E mi sembra anche abbastanza logico per un paese come la Sicilia. Inizialmente, è vero, la mafia, ma la mafia di Vittorio Emanuele Orlando, la mafia che cercava il potere, fu tutta con noi. Era stata debellata da Mussolini, dal prefetto Mori e con l’invasione alleata cercò di ricostruire le sue fila e cercò di inserirsi nell’area del potere.

È vero. All’inizio fu con noi. Chi era, infatti, il cavallo vincente tra il 1943 e il 1945? Naturalmente il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. E, infatti, arrivarono tra le nostre file. Poi quando si ricostruirono i partiti, quando la conferenza di Yalta spartì ufficialmente il mondo e americani e inglesi, sicuri che l’Italia sarebbe appartenuta al mondo occidentale, lasciarono il Movimento a se stesso, la mafia capì quello che avevano capito anche alcuni degli indipendentisti traditori: che il potere, il vero potere sarebbe stato esercitato da altri partiti, non dal Movimento. E ci abbandonarono. I rapporti con Giuliano furono, dunque, per una intesa sul terreno dell’indipendentismo e della lotta clandestina.

Dopo quarantotto ore di colloqui a quattrocchi, Giuliano mi accompagnò a Ponte Sagana. Ci stringemmo la mano e ci salutammo. “Chi tocca a vossia, mori”, mi disse, e ci abbracciammo. Era commosso. Non dimenticherò mai quegli occhi. Non lo avrei mai più visto. Giù vicino al ponte c’era già l’automobile con Carcaci, La Motta e Castrogiovanni che mi attendeva. Montai in automobile e rientrai a Palermo.

Un paio di giorni più tardi lasciai Palermo e mi spostai a Caltagirone, a San Mauro di Sotto, dove c’era una proprietà che apparteneva a mia moglie e dove io avevo collocato le nuove forze dell’Evis; una sessantina di giovani di ogni parte della Sicilia, in maggior parte messinesi, con le divise dell’Evis. Giovani che mantenevo io, con i soldi che riuscivo a ricavare dalla vendita dei prodotti della proprietà di mia moglie. Perché, di finanziamenti, il Mis e l’Evis non ne ebbero mai. I finanziamenti erano rappresentati dai contributi che ciascuno di noi pagava. Piccoli contributi di danaro e grandi contributi di sangue.E fu proprio col sangue che finì l’avventura dell’Evis. Proprio a San Mauro di Sopra, al Piano della Fiera, dove la mattina del 29 dicembre 1945 l’esercito sostenne la sua prima e ultima battaglia.

La prima e l’ultima battaglia combattuta tra siciliani e italiani, tra Sud e Nord, cominciò il 29 dicembre 1945 sul Piano della Fiera, a pochi chilometri da San Mauro di Sopra, nei pressi di Caltagirone. I siciliani erano una sessantina, sotto il mio comando: morto Canepa, come ho detto, io ero diventato il secondo comandante dell’EVIS sotto il nome di Secondo Turri.

Gli italiani erano oltre cinquemila ed erano sotto il comando di cinque generali. Con loro avevano un aereo da ricognizione, cannoni, mortai, fucili, mitra e carri armati.

Anche la battaglia, come del resto ogni altro episodio che ci interessava, in quei giorni fu preceduta da un tradimento, il solito tradimento all’italiana. Alla morte di Antonio Canepa erano seguiti il riordinamento del nostro esercito sotto la mia guida e tutta una serie di collegamenti tra cui quello da me operato con Giuliano. Lo scontro decisivo, però, tardava a venire e di questo ne avevano approfittato le due parti, indipendentisti e governo centrale, che nel 1945 era ormai insediato a Roma, per risolvere sul piano politico la questione dell’indipendenza siciliana».

Commento del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

Dopo avere incontrato Gallo, Giuliano si entusiasmò per gli ideali indipendentisti e nelle sue azioni di guerriglia inalberò, con orgoglio, il vessillo giallo-rosso. Senza dubbio, il nuovo impulso che venne dato alla propaganda separatista, in un linguaggio non troppo ortodosso, a Montelepre e nei paesi vicini, era attribuibile all’azione di Giuliano, dei suoi parenti e dei suoi collaboratori.

È significativo, a tal proposito, un manifestino dattiloscritto, che circolò in San Giuseppe Jato, nel quale veniva fatto il nome di Giuliano, fra l’altro, contenente il seguente invito: “Siciliani! Unitevi in squadre, formate le bande e combattete per la libertà, …, a morte la Polizia Italiana che agisce ancora fascisticamente contro il popolino siciliano”. Di analogo tenore erano le note della Prefettura di Palermo e del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, che segnalavano scritte sui muri, manifesti, iniziative politiche, di matrice separatista, supportate da Giuliano e dai suoi uomini. L’idillio con il Separatismo e la disistima verso Andrea Finocchiaro Aprile e gli altri dirigenti, da parte di Giuliano, aumentò a dismisura quando quest’ultimo apprese dai propri legali che l’amnistia del 20 giugno 1946, applicata a molti giovani dell’Evis, non sarebbe stata estensibile a lui stesso e ai componenti della sua banda, perché colpevoli di reati comuni commessi sia prima e sia dopo il periodo della loro militanza nell’Esercito Separatista.

(5. Continua –“Memorie” di Concetto Gallo, da un’intervista di E. Magrì, 1974)

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