giovedì 24 settembre 2009

Il vento - di Davide Cautiero - Traduzione in lingua siciliana di Alessio Patti (Versione originale in calce)


Sta diventando ogni giorno un'esperienza sempre più interessante e ricca di emozioni il tradurre in lingua siciliana poesia e prosa di altri illustri poeti ed anche componimenti di amici che si sentono vicini all'arte poetica siciliana.
Oggi è il turno di un mio carissimo amico, uno straordinario poeta che porta il nome di Davide Cautiero. Di lui, prima ancora dello scrittore, si coglie l'uomo educato e serio. Egli è poeta solitario, mai enfatico, libero nella sua ricerca del lume dell'anima, grande stilista della parola, in sé ha il genio ed il talento letterario che usa praticare con la capacità dei semplici.

Lu ventu - di Davide Cautiero - Traduzione in lingua siciliana di Alessio Patti

Siddu lu ventu
nun ciusciassi supra a lu me distinu
tinissi a frenu lu fatu senza brigghia...
eppuri m'antruscia
ccu lu so mantu di mumintània nnucenza,
ccu li so' aurusi vesti
ca pàrunu cummigghiari ssi vrazza,
sti parti di mia
comu si' vulissiru allìnghiri lu vacanti,
na mancanza...
Lu me chiù granni sognu
è statu sempri chiddu di curriri appressu a lu ventu,
zoccu tu nun po' vidiri
Vèstiri ccu li panni di la llusioni
ca anninna un sognu,
lu imperfettu ca cerca lu difettu...
Scumpàriri nni lu ventu e no nni l'ùmmira
pirchì sulu cu' havi spagnu d'iddu stissu
nun cerca luci...
Vulissi ca la terra firrìannusi
m'arrubbassi purtannumi ccu idda
comu fa l'alba ccu la luna
Forsi ti incontru,
mi piaci pinzarlu...
sai a li voti lu pinzeru è chiù duci di 'n-abbrazzu.
Sì, lu ventu non muta mai lu distinu...
lu vivi.

Breve prosa di Davide Cautiero tradotta in lingua siciliana da Alessio Patti

Sciuri miu, puri lu tempu, ccu li so' miserabili cugnituri, s'affidassi a lu casu sulu ppi putiri nvicchiari a lu to ciancu. Davide Cautiero.

Quannu sti vesti murtali m'abbannununu, speru ca nun c'è sulu pruvuligghia e duluri a schiticchiari ccu la faccioleria, ma ca ogni pizzuddu di mia pozza tramutarisi nta na ispirazioni.
Versione originale della poesia di Davide Cautiero.

Il vento

Se il vento
non soffiasse sul mio destino
domerei il fato senza redini...
eppur mi avvolge
con il suo manto di innocenza effimera,
con le sue leggiadre vesta
che sembrano ricoprire questi arti,
queste membra,
come se volessero colmare un vuoto,
una mancanza....
Il mio più grande sogno
è sempre stato di inseguire il vento,
ciò che non puoi vedere
Vestire i panni dell'illusione
che culla un sogno,
l'imperfetto che cerca il difetto...
Scomparire nel vento e non nell'ombra
perché solo chi ha paura di se stesso
non cerca la luce...
Vorrei che la terra girandosi
mi rubasse portandomi con sè
come fa l'alba con la luna
Forse ti incontrerei,
mi piace pensarlo...
sai a volte un pensiero è più dolce di un abbraccio.
Si, il vento non muta il destino...
lo vive .

Breve prosa di Davide Cautiero.

Mio fiore, anche il tempo, con le sue miserabili circostanze, si affiderebbe al caso solo per poter invecchiare al tuo fianco.

Quando queste vesti mortali mi abbandoneranno, spero che non ci sia solo polvere e dolore a banchettare con l'ipocrisia, ma che ogni piccola parte del mio essere possa mutarsi in idea.

"Memorie" di Concetto Gallo, secondo Turri, successore di Canepa. (6a parte)


Storia del Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, raccontata dal comandante dell'EVIS, secondo Turri, successore di Canepa, in una intervista poco nota del 1974.

(Intervista di E.Magri, 1974 - Riproposta nel 2009 sul settimanale "Gazzettino di Giarre" dal Prof. Salvatore Musumeci")

"All’alba del 29 dicembre ’45, cinquemila militari italiani circondarono Piano della Fiera. Furono tenuti in scacco da cinque evisti per un giorno intero. Cadde il giovane indipendentista Diliberto e il sottoscritto finì prigioniero".


«Nella seconda metà del 1945, mentre io mi trovavo nella clandestinità sulle montagne attorno a Caltagirone, alcune componenti politiche dell’indipendentismo avevano preso contatto con esponenti dell’Italia per la ricerca di una soluzione pacifica che escludesse o che evitasse lo scontro armato. E in effetti qualcosa di sostanziale riuscirono a ottenere. Un giorno qualcuno mi avvertì che mantenessi calmi i miei uomini perché qualcosa a Roma si stava muovendo in senso molto favorevole a noi. E in effetti, all’incirca verso il mese di novembre del 1945, l’allora il ministro degli Interni, Giuseppe Romita, inviò, espressamente, un aereo militare a Catania con il compito di portare a Roma una rappresentanza dell’indipendentismo.

Su quell’aereo si imbarcarono alcuni esponenti prestigiosi del Mis. C’erano l’onorevole Bruno di Belmonte, mio padre, Ulisse Galante, Giuseppe Bruno e l’avvocato Pontetoro. Riunitasi a Roma insieme con altri elementi del Mis, la commissione presentò a Romita un progetto di armistizio che prevedeva il rientro nella legalità di tutti i giovani dell’Evis, la libertà di parola, la riapertura delle nostre sedi, e così via. Romita fu largo di promesse. Promise anche il riconoscimento di una bandiera siciliana, la bandiera giallo-rossa con una coccarda tricolore, ma i più intransigenti indipendentisti saltarono per aria “No, la coccarda no”, dissero sdegnati. Fu mio padre, con molto buon senso, che accettò la proposta. “Ma sì”, disse. “La coccarda tricolore nella bandiera siciliana può andare benissimo”, concluse.

A questo colloquio ne seguirono, tra Palermo e Roma, alcuni altri nei quali, sia pure non ufficialmente, ci si occupava del problema del fatto compiuto: vale a dire dell’esistenza dell’Evis, del destino degli uomini che erano finiti nella clandestinità. Accordi precisi non ne vennero fuori. Si stabilì a un certo punto che una volta entrato in vigore quella sorta di statuto tutto dovesse ritornare come prima, che gli uomini sarebbero scesi dalle montagne, avrebbero deposto le armi e “in un modo o nell’altro sarebbe stata trovata una soluzione”.

Era questa soluzione che io stavo aspettando nella prima metà del mese di dicembre 1945 sulle montagne di Caltagirone. I messaggi che mi venivano dal Movimento erano improntati al migliore ottimismo e invitavano, costantemente, a non “creare disordini”. Per questa ragione, vale a dire per non turbare i “pour parler” in corso con errori, bloccai a Nicosia e a Pietraperzia una colonna di circa duecento giovani che doveva ricongiungersi al mio gruppo.

Ma il ventisette dicembre Guglielmo di Carcaci mi inviò un messaggio. “Stai attento”, diceva il biglietto, “perché in questi giorni le zone dell’Etna e quelle di Catania pullulano di soldati. Ci sono molti movimenti strani”.

Il giorno dopo, il ventotto dicembre, un gruppo di contadini mi avvertì che Caltagirone era diventata un vero e proprio presidio e che c’erano anche dei carri armati. La mattina del 29 dicembre, all’alba, raggiunsi la sommità di Piano della Fiera dove c’era il nostro accampamento. La zona era quasi tutta circondata dalla nebbia.

I giri d’orizzonte col binocolo non dicevano granché. Poi, alle sei e mezzo, arrivò la prima bordata di mortai. La battaglia era già iniziata. Noi, come dicevo, eravamo una sessantina in tutto, compreso un gruppo di briganti che durante la notte si era avvicinato al nostro accampamento per rifocillarsi. Inoltre mancava la pattuglia di cinque uomini che la notte precedente era stata mandata in avanscoperta.
Non appena si diradò la nebbia, affiorò chiara, in me e poi negli altri, la sensazione che era arrivata la nostra ultima ora. L’accerchiamento nei nostri confronti era già stato effettuato. Ma, convinto che la guerra sarebbe dovuta continuare anche dopo di me, operai in modo di impegnare le truppe e di fare sganciare il grosso dei miei uomini. Mentre io con cinque giovani, Amedeo Boni, Emanuele Diliberto, Filippo La Mela e due contadini, mi portavo verso le truppe, carabinieri, polizia, soldati, per impegnarli frontalmente, e dar così modo al resto degli uomini di arretrare, ordinai al resto della compagnia di sganciarsi e di abbandonare la zona.

La battaglia cominciò a diventare aspra. Le truppe cercano di creare attorno a loro la terra bruciata. I cinquemila uomini, al comando dei cinque generali, cominciarono a sparare con una intensità inaudita: come se di fronte a loro avessero avuto un vero e proprio esercito. In effetti a questa “credenza” avevamo contribuito anche noi inviando al ministero degli Interni, nei mesi precedenti, rapporti, su carta intestata dell’Ispettorato generale di polizia, nei quali si drammatizzava enormemente la situazione e dove si parlava di basi, di ingente numero di armi e materiali.
I miei uomini operano lo sganciamento attorno alle due del pomeriggio. A quell’ora contro cinquemila uomini che, come scrissero più tardi i giornali, “sparavano migliaia e migliaia di colpi” non c’ero che io e altri quattro. La bandiera giallo-rossa garriva al vento e più tardi, quando le truppe si avvicinano alla nostra postazione, era l’obiettivo principale dei tiratori. Verso le due e trenta del pomeriggio, sistemai un cecchino al mio fianco sinistro per impedire una sortita da parte delle truppe. Ma l’uomo, il giovane Diliberto di Palermo, commise un errore. Per raggiungere una posizione più avanzata si spostò e nel tragitto venne colpito a morte.

All’infernale fuoco delle truppe noi rispondemmo alla meglio con le nostre armi in dotazione: fucili, mitra e bombe a mano. Ormai stava per calare la sera e le nostre munizioni erano finite.

Sembrava che la morte non mi volesse. Una pallottola mi colpì al petto ma fu deviata da una medaglietta che tenevo nel taschino del giubbotto. Più tardi una raffica di mitra mi sfiorò il fianco bucando il giaccone e lasciandomi indenne. Poi una fucilata mi sfiorò all’altezza del cavallo dei pantaloni. Anche questa non mi colpì. Un colpo mi portò via il berretto e mi colpì lievissimamente alla testa.

Fu il momento in cui capii che non c’era più niente da fare. Che l’unica cosa era morire là sul quel pianoro, insieme con i miei amici, i miei uomini. Ordinai a Boni e a La Mela di mollare e di arrendersi. Boni rifiutava di abbandonarmi e io glielo imposi. Restai solo. Fu allora che staccai la bomba a mano che tenevo legata alla cintura, tirai fuori la spoletta e me la buttai tra i piedi nella speranza di saltare per aria. La bomba non esplose.

Ormai era quasi sera. C’era un sibilo. E una bomba, una granata, esplose davanti a me. Il buio della morte arrivava col buio della serata? Macché. Pochi minuti dopo mi risvegliai. Accanto c’era un maresciallo dei carabinieri, il maresciallo Manzella, che, come avrei saputo più tardi, mi aveva salvato la vita. Trovandomi infatti svenuto, il milite della pattuglia che mi aveva scoperto aveva già puntato il mitra contro di me e stava per lasciare partire una raffica quando intervenne il maresciallo dei carabinieri Manzella. E lui che puntando a sua volta il mitra contro l’uomo gli disse: “Se tiri contro quell’uomo ti ammazzo”.

Ma non ebbi molto a gioire, almeno per qualche tempo, di essere scampato alla morte. Ammanettato come un brigante, venni caricato su un camion e portato a Catania dove, immobilizzato ancora di più, mani e piedi, venni buttato dentro una cella, nella quale sono vissuto per due giorni senza bere e mangiare.

Quanto al resto dell’armata italiana, continuò a bombardare il Piano della Fiera fino all’indomani mattina alle sei. Il generale Fiumana, uno dei cinque generali che comandavano le truppe, incontrando più tardi mio padre gli tese la mano dicendo: “Ho avuto l’onore di stringere la mano a suo figlio”. Così finì la guerra per l’indipendenza della Sicilia».

Commento del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

Il 29 dicembre 1945 avvenne, dunque, l’ultima battaglia dell’Evis. I 56 guerriglieri indipendentisti furono completamenti accerchiati da oltre 3000 militari italiani delle divisioni “Sabauda” e “Aosta”. Concetto Gallo, vista impossibile ogni resistenza, licenziò i suoi “evisti”, per evitare loro una morte sicura; ma due di essi, lo studente liceale Amedeo Bonì di Santa Teresa di Riva e il contadino Giuseppe La Mela di Adrano, vollero rimanere con lui, votandosi anche alla morte pur di non lasciare solo il loro amato comandante.

Nella sparatoria che si verificò, ci furono due vittime, il giovane Diliberto e l’appuntato dei Carabinieri Giovanni Cappello di Santa Croce Camerina. Ma non fu il mitra di Concetto Gallo ad ucciderlo, perché i suoi proiettili erano di calibro 8,8, mentre il colpo fatale risultò all’autopsia di calibro 6,5, che era quello dei moschetti dei Carabinieri. Gallo fu perciò fatto prigioniero con i due giovani evisti e sarebbe stato scarcerato soltanto dopo la sua elezione a Deputato alla Costituente il 2 giugno 1946.

È interessante il contenuto della nota riservata, datata 4 marzo 1946, del Ministero dell’Interno al Ministro della Guerra e per conoscenza alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Veniva data notizia, infatti, di un probabile colpo di mano che i guerriglieri dell’Evis, sfuggiti all’assedio di San Mauro, avrebbero voluto attuare al fine di liberare dal carcere, il loro Comandante Concetto Gallo e gli altri esponenti separatisti ivi detenuti. Episodio, questo, che fa comprendere quanto alto fosse il prestigio di Gallo e come i giovani dell’Evis fossero ancora motivati ed attivi.

La loro voglia di battersi veniva, però, sapientemente trattenuta dai dirigenti separatisti che erano a conoscenza delle trattative in corso, tra gli “esuli” di Ponza e il Ministro Romita.

Per un ventennio circa, Concetto Gallo subì processi penali e civili scaturiti, direttamente ed indirettamente, dalla sua attività di Comandante dell’Evis, con un susseguirsi di assoluzioni e di condanne. Vale la pena di ricordare che nel dibattimento del 26 ottobre 1950, in Corte d’Assise di Catania, il Dr. Salvatore Quattrocchi Pm, si lasciò andare ad alcune attestazioni di ammirazione per la figura di Concetto Gallo, considerandolo un combattente per il riscatto della Sicilia, bistrattata, impoverita e degradata, che misero in serio imbarazzo il Presidente della Corte.

In quella occasione, l’imputato Gallo era contumace, ed il Mis era in piena crisi. Quindi, la presa di posizione del Pubblico Ministero dimostra come la cultura indipendentista fosse ancora presente nella realtà siciliana, a prescindere dalle fortune elettorali o politiche del Partito Separatista e dei suoi esponenti più in vista.

A Monte San Mauro, Concetto Gallo fece erigere una stele (con base e forma triangolare che richiama la Sicilia), per ricordare la gloriosa battaglia e onorare tutti gli evisti morti per la “causa siciliana”. Purtroppo, mani ignote ne hanno asportato la lapide mutilandone la sacralità.

(6. Continua –“Memorie” di Concetto Gallo, da un’intervista di E. Magrì, 1974)

Il tuo sorriso - di Pablo Neruda - Traduzione in siciliano di Alessio Patti


Lu to surrisu

Levimi lu pani siddu voi,
levimi l'aria, ma
nun mi livari lu ciuri di li labbra.

Nun livatimi la rosa,
la lancia ca spicchi,
l'acqua ca di ntrasatta
scoppia nni lu to preju
la subìtania unna
d'argentu ca ti nasci.

Dura è la me lotta e tornu
ccu l'occhi stanchi,
a li voti nni l'aviri vistu
la terra ca nun cancia,
ma trasennu lu to risu
acchiana 'n-celu circannumi
e gràpi ppi mia tutti
li porti di la vita.

Amuri miu, nni l'ura
chiù nira gràpi
lu tu surrisu, e siddu ntrasatta
vidi ca lu me sangu macchia
li petri di la strata,
arriri, pirchì lu to risu
è ppi li me' manu
comu na spada frisca.

Vicinu a lu mari, d'autunnu,
lu to risu havi jisàri
la so cascata di scuma,
e nni la primavera, amuri,
vogghiu lu to risu comu
lu sciuri c'aspittavu,
lu sciuri cilesti, la rosa
di la me patria sunanti.

Arrìritila di la notti,
di lu jornu, di la luna,
arrìritila di li strati
turciati di l'isula,
arrìritila di stu viddanu
arzuni ca ti ama,
ma quannu gràpu l'occhi
e quannu li richiudu,
quannu li me' passi vannu,
quannu tornanu li me' passi,
levimi lu pani, l'aria,
la luci, la primavera,
ma lu to surrisu mai,
pirchì ju ni murissi.


Versione originale di Pablo Neruda

Toglimi il pane, se vuoi,
toglimi l'aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.

Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l'acqua che d'improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d'argento che ti nasce.

Dura è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d'aver visto
la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomied
apre per me tutte
le porte della vita.

Amor mio, nell'ora
più oscura sgrana
il tuo sorriso, e se d'improvvisove
di che il mio sangue macchia
le pietre della strada,
ridi, perché il tuo riso
sarà per le mie mani
come una spada fresca.

Vicino al mare, d'autunno,
il tuo riso deve innalzare
la sua cascata di spuma,
e in primavera, amore,
voglio il tuo riso come
il fiore che attendevo,
il fiore azzurro, la rosa
della mia patria sonora.

Riditela della notte,
del giorno, della luna,
riditela delle strade
contorte dell'isola,
riditela di questo rozzo
ragazzo che ti ama,
ma quando apro gli occhi
e quando li richiudo,
quando i miei passi vanno,
quando tornano i miei passi,
negami il pane, l'aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
perché io ne morrei.

Io pagliaccio - di Franco Provasi - Tradotta in lingua siciliana da Alessio Patti.


Ama sulu
la so arma,
la me amurusanza
svinniu ccu na risata,
sacchijiannumi lu cori.
Ju carnalivari
la talìu
persu
ntra lu so duluri.
Cuntentu chianciu,
spugghiata
la me filicità
la stizzera
havi cunsumatu lu me pruvulazzu.

Versione originale di Franco Provasi

Ama solo
il suo animo,
la mia sensibilità
ha svenduto con un sorriso,
saccheggiandomi il cuore.
Io pagliaccio
la osservo,
perduto
nel suo dolore.
Gioisco piangendo,
spogliata
la mia felicità,
la clessidra
ha consumato la polvere mia.

domenica 20 settembre 2009

A 'NFRUENZA


– E chi sacciu, cummari Pruvirenza!...

Ju sempri dicu, 'ntra la me' 'gnuranza,

ca siddu non facemu pinitenza

muremu tutti, nobili e mastranza!...




L'èbbichi su' canciati!... La 'mprudenza

di l'omu è tali ca non c'è spiranza

di sarvarini l'arma e la cuscenza...

E paradisu nuddu, chiù nn'accanza!



A 'dd'èbbica chi c'era 'sta 'nfruenza,

e chi c'era – parrannu ccu crianza –

'stu corpu sempri sciotu, 'n pirmanenza?



Chista è manu di Diu ca non si scanza!...

E vui, bellu, parrannu 'n cunfidenza,

macari l'âti fattu, ôcche mancanza!...

Da "Centona" di Nino Martoglio

sabato 19 settembre 2009

" Ma tutto questo non è possibile perchè è la SORELLA di Gianni Letta...."



Ricevo e pubblico,e chiedo a gran voce che venga fatta chiarezza:

Il M.llo capo Vincenzo Lo Zito, è un dipendente della Croce Rossa Italiana Corpo Militare, in servizio presso il Comitato Regionale Abruzzo dell’Aquila con incarico di Funzionario Amministrativo qualifica C2. fino al secondo TRASFERIMENTO D'AUTORITA' , con un esoso danno all’erario, per aver svolto solo il proprio lavoro e aver presentato dopo che i vertici della Croce Rossa Informati dei fatti tacevano.... regolari esposti alla Procura della Repubblica e alla Corte dei Conti di competenza per presunte irregolarità amministrativo-contabile, rilevate all’interno del Comitato Locale di Carsoli (AQ) prima e del Comitato Regionale Abruzzo in L’Aquila in ultimo, da parte dei rispettivi Presidenti.
Nello specifico e ultimo fatto in essere, il Presidente del Comitato Regionale Abruzzo della Croce Rossa Italiana, Maria Teresa Letta sorella di Gianni Letta, con carica esclusivamente di Presidente Regionale e quindi, né di Direttore né di Funzionario amministrativo, firmava mandati di pagamento e quant’altro avendo anche la firma depositata in Banca presso Avezzano (AQ), sua città di residenza e non a l’Aquila unica sede della struttura CRI, contrariamente a tutti i regolamenti di amministrazione che prevedono che tali compiti spettino solo ed esclusivamente al Direttore Regionale.
Anche lo stesso Direttore, aveva lamentato l'anomalia gestionale e le irregolarità alla Banca dove era depositato il C/C del Comitato Regionale Abruzzo, ma la stessa Presidentessa ha continuato a firmare unitamente a un’altra dipendente, che non aveva nessuna qualifica per la firma ed assunta a tempo determinato.
I Mandati di pagamento e le reversali d'incasso li firmavano entrambi, una come Presidente, (figura non deputata a tale compito), l'altra come Responsabile Amministrativo, violando due principi essenziali, uno che il Direttore era presente in sede, la seconda, non avendo il requisito essendo precaria.
La cosa grave è che oltre a questi evidenti abusi, nei confronti del Maresciallo Lo Zito, è stata attuata una vera e propria “guerra”: per aver più volte denunciato i fatti e aver tentato di garantire una corretta amministrazione dei soldi pubblici. Vengo trasferito due volte su indicazione della stessa Presidentessa Regionale CRI, Maria Teresa Letta, la quale addirittura come motivazione, adduce al fatto, che il Maresciallo Lo Zito le impedisce di svolgere il suo lavoro (illegale) e pertanto richiede il trasferimento immediato per “INCOMPATIBILITA’ AMBIENTALE” cosi si legge sull’ennesimo provvedimento del 11 Agosto 2008 e questa volta addirittura fuori Regione e precisamente all' Ufficio Arruolamento e Addestramento di ASSISI (PG), della regione Umbria.
Tutto questo oltre al notevole disagio creatomi per gli spostamenti, anche in seguito al recente e delicato intervento cardiaco cui sono stato sottoposto e ancora convalescente, ha comportato un esoso esborso di denaro pubblico....... come riportato anche nel verbale dell’Ispezione del Ministero Economia e Finanza.
Si precisa che l’apertura dei Centri di Mobilitazione con Ordinanza Presidenziale 223/06 contestata anche dall’ispezione, “non comportava impiego di fondi”…… cosa che non è stata, come dalla tabella riportata nell’ispezione stessa.
Inoltre per l’apertura dei Centri è stato trasferito d’Autorità del personale che ha percepito regolare indennità di trasferimento, nonostante fossero inutili come evidenziato anche dall’indagine svolta dal “Corriere della Sera" Nel Centro di Assisi (Perugia) per costutuirlo appositamente vengono trasferiti da Roma i militari Ten. Col. Reali Antonello e Mar. Muto Silvio che risultano rispettivamente in ordine, il primo già con incarico ad Interim anche del Centro di Roma per farlo rientrare e Comandante, dopo aver percepito l’indennità di trasferimento e il secondo in attesa, mentre il sottoscritto Maresciallo Capo Vincenzo Lo Zito viene trasferito con tanto di oneri in una sede che risulta inutile… e tra l'altro, nonostante ci sia una copiosa certificazione sanitaria, che mi vieta nel modo più assoluto di allontanarmi dalla mia residenza e raggiungere una destinazione così lontana, che comporterà la sospensione del trattamento riabilitativo e il degenerare della mia patologia cardiaca sottoponendomi a notevole stress psico-fisico e non potendo rispettare le norme prescritte di alimentazione e riposo..
Il Soggiorno avverrà in Auto e l'alimentazione alla meglio.. dato che non è previsto un alloggio di servizio e non posso permettermi il carico di un ulteriore affitto dato che ho già una casa da pagare e il mantenimento di due figli di cui uno all'università.... e tutto questo: PER PROTEGGERE una persona che meriterebbe Lei l'allontanamento o la radiazione dalla Croce Rossa italiana.. Ma tutto questo non è possibile perchè è la SORELLA di Gianni Letta....
http://vincenzoozito.blogspot.com/2009/08/storia-di-ordinaria-ingiustizia.html

venerdì 18 settembre 2009

Pizzuddu (D'amuri) - di Giancarlo Fattori - Traduzione in lingua siciliana di Alessio Patti


Pirchì dasti valuri a la me vita
e 'n-sensu a li cosi ca fazzu,
cridisti a zoccu sugnu
e m'allìstisti,
dasti prufunnità a lu me essiri omu,
indìviduu, pirsuna.
Pirchi senza di tia nun ci 'a fazzu a immaginarimi
si' nun comu vacanti dintra a 'n-locu leggiu,
senza nuddu significatu, di ogni essenzia di li cosi,
Pirchì si l'universu ca firrìa attornu a lu me munnu,
sì lu pruvulazzu dintra a li spirali di la me custellazioni,
e m'ami, puru quannu odii li cosi ca fazzu e dicu.
Pirchì sì l'amicu ca manca a la me festa,
la mità ca cumpleta lu me tuttu.
Pirchì si la fimmina di li me' sogni e l'omu di li me' sogni,
sì la indentitati ca persi, e la perdita c'attruvai,
e l'eroina ca m'avvampa li vini e lu pinzeru
Pirchì nun ti pigghi jocu , non parri mali di mia,
e si la rina nta li gnuttìchi di li me' linzola.


Versione originale a cura di Giancarlo Fattori

FRAMMENTO (D'AMORE)

Perchè hai dato valore alla mia vita,
e un senso alle cose che faccio,
hai creduto in quello che sono
e mi hai completato,
hai dato profondità al mio essere uomo,
al mio essere individuo, persona.
Perchè senza te non riesco a immaginarmi
se non come vuoto all'interno di un vuoto,
privo di ogni significato, di ogni essenza delle cose.
Perchè sei l'universo che ruota intorno al mio mondo,
sei la polvere nelle spirali della mia costellazione,
e mi ami, anche quando odii le cose che faccio e dico.
Perchè sei l'amico che manca alla mia festa,
la metà che completa il mio tutto.
Perchè sei la donna dei miei sogni e l'uomo dei miei sogni,
sei l'identità che ho perduto, e la perdita che ho trovato,
e l'eroina che mi brucia le vene e il pensiero.
Perchè non mi deridi, non mi discrimini,
e sei la sabbia nelle pieghe delle mie lenzuola.

Inno Nazionale Siciliano:Vogliamo realizzarlo assieme ?

Di Neva Allegra
Cari Amici, la maggior parte di Voi conosce il brano tratto dai " Puritani- SUONI LA TROMBA INTREPIDO ", sa che per gli Indipendentisti è l' Inno siciliano. Di questo Inno abbiamo il testo che ovviamente è diverso dal testo del brano originale dell' opera di Vincenzo Bellini.
Dicevo che abbiamo il testo, MA E' SCRITTO IN ITALIANO, non è scritto nella nostra lingua siciliana, ma questo sicuramente non è un problema, certamente qualcuno degli Amici taggati in questa nota si offrirà di tradurlo ( Lina La Mattina, Lucio Paladino, Santo Trovato, Alessio Patti, etc. ). Fatta la traduzione dovremmo trovare un cantante, un 'orchestra, ed una sala d' incisione...PER AVERE IL NOSTRO INNO CANTATO NELLA NOSTRA LINGUA !
Vogliamo provare a realizzare assieme questa piccola grande impresa ? Forse l' orchestra potrebbe fornirla il Presidente del MIS... proverò a chiederglielo, e il cantante ?
Incollo il testo in italiano:
Per la Sicilia, intrepido
io pugnerò da forte
bello è affrontar la morte
gridando libertà!

Contro i tiranni italici
nemici della nostra terra,
ognun le armi afferra
gridando libertà.
Sicilia! Sicilia!

L'oppresso nostro Popolo
quest'oggi si ridesta
e leva alfin la testa,
gridando libertà!

Vogliam che in terra libera
vivan le nostre genti,
sorgan voci ardenti
gridando libertá!

Al suon dei bronzi indomiti
dei nostri templi santi
leviam in alto i canti
Sicilia e Libertà

Il Link dell' aria " Suoni la tromba intrepido "
http://www.youtube.com/watch?v=aCr4RdrdQTo
E il link...be vedetelo
http://www.youtube.com/watch?v=6i0d6v2ndpY

La rivorta dû 7 e menzu di Palermu


"RICURRENZA DI LU 147 ANNU DÂ RIVORTA DÛ SETTI E MENZU"

L'anni siquenti a l'unitati di l'Italia, tutti li riggiuni miridiunali foru ntirissati di nu finòminu di massa di risistenza armata contra a l'asèrcitu piemuntisi; ntâ Sicilia ssu finòminu era cchiù allintatu, picchì ntê pinzera dê siciliani c'era ancora lu ricordu dâ duminazzioni burbònica, ca nun avìa statu attenta a li bisogni dê pupulazzioni siciliani. Pirò, quannu si vitti ca tutti li prumissi fatti dê garribbardini non foru arrispittati, ma ajanzi nta l'anni siquenni a l'Unitati, lu cuvernu talianu accuminciau a mpurri na tassazziuni forti, ntruducennu la "dècima" e purtannu a n'aumentu dâ puvirtati, macari ntâ Sicilia, ammenzu a la sucità cchiù pupulari, accuminciau a sintìrisi nu sintimentu cuntràriu a lu cuvernu talianu.

Li setti jurnati ( e menzu) di rivorta di Palermu, ca s'èppiru ntô sittèmmiru dû 1866, foru lu risurtatu di comu la pulìtica misa 'n attu ntâ Sicilia dû cuvernu sabbàutu avìa stata orba, viulenta e cunnutta cu dispezzu pô pòpulu sicilianu.
Ntâ nuttata tra lu 15 e lu 16 di sittèmmiru 1866, quarchi quattrumila viddani dê campagni dû circunnàriu di Palermu, assartaru a la cità e, tempu nenti, purtaru tuttu lu pòpulu a sullivàrisi cuntru a chidda c'avìa statu pi quasi sei anni la priputenza dû novu culunizzaturi, cuntru a la fami e a la misèria sempri cchiù nìura, cuntru a li misuri riprissivi dâ polizzìa, cuntru a li funziunari sittintriunali, ca cunziddiràvanu la pupulazzioni lucali comu a genti nfiriuri e gnuranti (st'ùrtima cosa nzuppurtàbbili pi un pòpulu d'antica civirtati, comu a chiddu sicilianu).
Li capi di sta rivorta, foru pròpiu li picciotti ca sei anni arredi avìanu primmessu a Garibbardi li sò vittòrii, chiddi c'avìanu luttatu pi scacciari a l'asèrcitu bubònicu, chiddi ca avìanu statu cchiossai di tutti dilusi e traditi nta la bona fidi.


La participazzioni a la ribbiddiuni fu assai forti, tantu ca vuci dû cuvernu parràru di 35-40 mila òmini 'n armi; e si ô princìpiu si trattau di na sullivàzzioni c'avìa urìggini pâ scuntintizza pupulari, nta nenti si cci junceru àutri forzi pulìtichi ca stàvanu di tempu priparànnusi e ca stàvanu aspittannu l'addumata dâ mìccia pi dari focu a tuttu lu pagghiaru.
Ntâ rivorta di Palermu, si junceru forzi pulìtichi di estrema destra, nòbbili e cleru, e forzi di estrema sinistra. Li nòbbili e lu cleru pinzàvanu â ristaurazzioni burbònica e cliricali, la sinistra estrema avìa comu ubbiettivu la custituzzioni di nu statu ripubbricanu, comu a chiddu mazzinianu. La giunta rivuluzzionària avìa nu prisidenti burbònicu, lu prìncipi di Linguarossa, e nu sigritàriu mazzinianu, Francescu Bonafede. Certu, avissi statu ntirissanti vidiri comu ssi dui lìnii pulìtichi putìani stari nzemi, si nun fussi statu ca la rivorta fallìu pâ firoci riprissiuni fatta.

Dupu setti jorna e menzu, cu lu ntiverntu di 40.000 surdati e speciarmenti chê bumbardamenti dâ cità, fatti " a unni ntappa-ntappa ", urdinati dô ginirali Cadorna, li forzi dê Savoia èppiru la vittòria cuntru â rivorta. Si cuntaru migghiara di morti e migghiara di priggiuneri, ma nùmmira ufficiali nun ci nni foru, forsi lu novu "statu unitàriu" nun puteva ammustrari, senza affruntàrisi, ssi nùmmira ô munnu.


Traduciuta 'n tuscanu littiràriu

La rivolta del 7 e mezzo di Palermo

Gli anni seguenti a l'unità d'Italia, tutte le regioni meridionali furono interessate da un fenomeno di massa di resistenza armata contro l'esercito piemontese; in Sicilia questo fenomeno fu meno evidente, perchè i siciliani conservavano ancora il ricordo della dominazione borbonica, che non era stata attenta ai bisogni della popolazione siciliana. Però, quando ci si accorse che le promesse dei garibaldini non furono rispettati, ma, anzi, negli anni successivi all'unità, il governo italiano iniziò a imporre una forte tassazione, introducendo la "decima" e causando l'aumento della poverà, tra la società più popolare iniziò a insinuarsi un sentimento ostile nei onfronti del governo italiano.

Le sette giornate ( e mezzo) di rivolta di Palermo, che si ebbero nel settembre del 1866, furono il risultato di come la politica messa in atto in Sicilia dal governo sabaudo era stata cieca, violenta e condotta con disprezzo verso il popolo siciliano.
Nella notte tra il 15 ed il 16 di settembre 1866, circa quattromila contadini delle capagne del circondario di Palermo, assaltarono la città, e, in un battibaleno, portarono tutto il popolo a sollevarsi contro a quella che era stata per quasi sei anni la prepotenza del nuovo colonizzatore, contro la fame e la miseria prempre più nera, contro le misure repressive della polizia, contro i funzionari settentrionali, che consideravano la popolazione locale come persone inferiori ed ignoranti ( quest'ultima cosa, insopportabile per un popolo d'antica civiltà come quello siciliano).
I capi della rivolta, furono proprio i "picciotti" che sei ani prima avevano permesso a Garibaldi le sue vittorie, quelli che avevano lottato per scacciare l'esercito borbonico, quelli che erano stati più di tutti delusi e traditi nella loro fede.

La participazione alla ribellione fu molto forte, tanto che fonti dello steso governo parlarono di 35-40 mila uomini in armi; e se all'inizio si trattò di un sollevazione che era stata originata dalla scontetezza popolare, in pochissimo tempo si unirono altre forze politiche che da tempo stavano aspettanto la scintilla che facesse incendiare tutto.
Nella rivolta di Palermo, si unirono forze politiche di estrema destra, nobili e clero, e forze di estrema sinistra. I nobili ed il clero pensavano alla restaurazione borbonica, la sinistra aveva l'obbiettivo della costituzione di uno stato repubblicano, come quello mazziniano. La giunta rivoluzionaria aveva un presidente borbonico, il principe di Linguaglossa, e un segretario mazzianiano, Francesco Bonafede. Certo, sarebbe stato interessante vedere come queste due linee politiche potessero stare insieme, se non si fosse avvenuto che la rivolta fallì per la feroce repressione messa in atto.

Dopo sette giorni e mezzo, con l'intervento di 40.000 soldati e in particolare con i bombardamenti a tappeto della città , ordinati dal generale Cadona, le forze dei Savoia ebbero la vittoria contro la rivolta.
Si contarono migliaia di morti ed altrattanti prigionieri, ma numeri ufficiali non ne furono dati, probabilmente il nuovo "stato unitario" non poteva mostrare, senza vergognarsi, quei numeri al mondo.
Nota di Santo Trovato


Sette giorni e mezzo di fuoco a Palermo

Si toccò con mano la crisi dello Stato unitario. Durissima e sanguinaria la repressione del generale Cadorna, voluta dal sindaco Starrabba di Rudinì

Dopo l’epopea garibaldina i siciliani si convinsero che qualcosa sarebbe cambiata. Invece non successe nulla. La terra ai contadini e provvedimenti a favore di artigiani e commercianti, si rivelarono vere e proprie illusioni. La tanta conclamata libertà e la concessione di una vera autonomia per la Sicilia, restarono semplici enunciazioni. I “piemontesi” si fecero ben presto conoscere per autoritarismo e per una organizzazione statuale centralistica e fiscale. Imposero più tasse ed avviarono un reclutamento di leva che provocò risentimenti e il fenomeno dei renitenti che si diedero alla macchia. Come se ciò non bastasse, il 7 luglio 1866, fu decisa la soppressione delle corporazioni religiose e l’incameramento, da parte dello Stato, dei loro ingenti beni. Nella sola città di Palermo, si ebbero, di colpo, effetti nefasti: diverse migliaia di mendicanti rimasero senza assistenza e la massa di artigiani e salariati stentò ad avere pane e lavoro.

Scontento era pure il ceto medio di estrazione intellettuale e di tendenze liberali. Gli unici soddisfatti erano i proprietari terrieri. La città e le campagne circostanti, al contrario, erano in ebollizione. La gente era pronta per l’ennesima rivolta.

All’alba del 16 settembre 1866, dopo una giornata di preparativi e di avvisaglie sottovalutate dalle autorità, dalle campagne calarono sulla città tremila uomini organizzati in squadre armate, che in breve tempo occuparono tutti i punti nevralgici, incontrando scarsissima resistenza. Al grido di “viva la Repubblica e Santa Rosalia”, tennero in mano la città fino al pomeriggio del 22 settembre successivo. Per la sua durata passò alla storia con il nome di “Rivoluzione del sette e mezzo”, nota anche come la “Rivoluzione dei senza capi e dei senza bandiera”. Acefala e senza l’appoggio della borghesia palermitana. Tutt’ora non si sa a quanto ammontino coloro che caddero sotto il piombo sabaudo. Si conoscono soltanto i dati relativi alle truppe regolari: 7 morti e 20 feriti tra gli ufficiali; 4 morti, 235 feriti e 24 “mancanti” tra la bassa forza. Degli insorti non furono pubblicate le cifre.

Per Antonio Starrabba (Palermo 6 aprile 1839), marchese di Rudinì e principe di Giardinelli, il più giovane sindaco che Palermo abbia mai avuto, essendo stato chiamato, nel 1863, a ricoprire l’importante ufficio a soli 24 anni (dopo di lui il primato lo detengono, rispettivamente, Salvo Lima e Leoluca Orlando), fu un duro colpo con conseguenze anche personali. Dovette fare i conti con un popolo esasperato e deluso dalle tante promesse non mantenute dal nuovo Stato.

Come riportato nell’ormai introvabile saggio di Mauro De Mauro dal titolo “Sette giorni e mezzo di fuoco a Palermo” (edizioni Andò), lunedì 17 settembre 1866 dei «guerriglieri mossero dal convento dei Crociferi e camminando sui tetti raggiunsero il palazzo del sindaco Rudinì. Calatisi attraverso i lucernari lo saccheggiarono e rovesciarono in strada mobili e suppellettili… che servirono ad erigere una barricata all’altezza della chiesa di San Giuseppe (dei Teatini, nda) a 40 metri circa dal municipio. La signora di Rudinì, si rifugiò in casa dei vicini…». Si apprese, qualche giorno dopo, che la donna, in conseguenza dello spavento, perse la ragione.

Malgrado il saccheggio del palazzo e la pazzia della moglie, il sindaco cercò di fronteggiare l’imperante caos. Non si perse d’animo e organizzò la controffensiva contro i rivoltosi dal palazzo delle Aquile. La sua strategia, e il ritardo con cui furono interrotte le comunicazioni telegrafiche, permise alle numerose truppe regie, avvertite in tempo dalla Prefettura, di giungere a Palermo e ripristinare l’ordine mediante una brutale repressione. Senza pietà, il generale Raffaele Cadorna, che con i rinforzi aveva portato ad oltre ventimila unità la consistenza delle truppe regie, ordì vendette con indicibile spargimento di sangue per le vie cittadine. Si toccò con mano la crisi dello Stato unitario e la repressione fu festeggiata, manco a dirlo, da pochi nobili.

I tribunali speciali comminarono otto condanne a morte, 48 ai lavori forzati a vita, più una cinquantina di pene minori. Venne arrestato anche l’ottantenne arcivescovo di Monreale, Benedetto D’Acquisto, che rimase in carcere per due mesi. La conseguenza peggiore fu l’epidemia di colera, portato dai soldati, che fece 7873 vittime nella sola Palermo.

Il giovane marchese, quale premio per aver fatto fallire la rivolta, ebbe onori e la nomina a prefetto di Palermo e, nel 1868, di Napoli. Nel 1869, non ancora deputato del Regno, ricevette la nomina a ministro degli Interni nel governo del generale Menabrea. Sul finire dello stesso anno venne eletto deputato nel collegio di Canicattì e ben presto si guadagnò i galloni di leader della Destra parlamentare. Nel febbraio del 1891, con l’appoggio di alcuni settori della Sinistra, sostituì Francesco Crispi alla presidenza del Consiglio.

In circa 15 mesi di governo il di Rudinì cercò di invertire la politica estera del suo predecessore rinnovando il trattato della Triplice alleanza ed impegnandosi a migliorare i rapporti con la Francia. In politica interna attuò un corsevatorismo illuminato e propugnò un timido decentramento amministrativo. Tornato al potere nel 1896 il marchese riuscì a fare approvare dal Parlamento la modifica all’ordinamento comunale e provinciale introducendo l’eleggibilità, su base locale, dei sindaci dei Comuni. Dopo la sconfitta di Adua, smantellò la megalomane politica coloniale crispina, firmando la pace con le potenze europee (Trattato di Addis Abeba).

Intanto il Paese, proprio in coincidenza con i suoi ultimi governi, attraversava una profonda crisi politica e sociale e il di Rudinì non si sottrasse dall’adottare, come era nel suo stile, misure repressive come i decreti di stato d’assedio (imposto nel 1898 a Milano, dove addirittura si fece uso dei cannoni contro il popolo. Tragico il bilancio: 118 morti e 400 feriti) e gli ordini di scioglimento delle organizzazioni politiche socialiste e cattoliche. Non riuscì, questa volta, a neutralizzare l’ostilità della Camera dei deputati e la forte opposizione nel Paese. Si ritirò definitivamente dalla scena politica e parlamentare nei primi del ‘900, dopo aver dato vita, con il gruppo liberal-moderato, a una forte opposizione nei confronti dei governi guidati da Giolitti.

La sua giovinezza fu contraddistinta dal conseguimento, presso l’Università palermitana, della laurea in legge e, a dispetto dell’appartenenza al ceto nobiliare, dalla sua convinta adesione alla causa per l’Unità d’Italia al punto di partecipare attivamente all’infelice insurrezione del 4 aprile 1860. Sfuggì per miracolo alla reazione borbonica e a un ordine di cattura, rifugiandosi prima a Genova e poi a Torino. Nella capitale del Regno di Sardegna governato dal Cavour, ebbe importanti incarichi burocratici che non lo distolsero, frattanto, dal proposito di convolare a nozze con una giovane piemontese, dal futuro poco felice dovuto alla sua avversione per la Sicilia e i siciliani.
Dopo il successo dei Mille di Garibaldi, di Rudinì fece ritorno in Sicilia, ormai parte integrante del nuovo Regno d’Italia. Si occupò di politica comunale ed entrò nell’entourage del prestigioso sindaco Mariano Stabile. Si fece notare per acume politico ed amministrativo. Apparve, pertanto, del tutto normale che il 10 agosto 1863, a soli 24 anni, fosse lui il successore di Stabile.

Restò saldamente al suo posto fino al 21 dicembre 1866. Si distinse come sindaco per aver bandito la progettazione del teatro Massimo e realizzato Villa Garibaldi e altre importanti opere pubbliche e portato a compimento la rete di illuminazione a gas. Ma anche per la sua crudeltà.

I suoi rapporti con Palermo nel tempo si affievolirono, seguiva da Roma i suoi interessi di grande proprietario terriero. La città non lo cercò e lui non fece nulla per compiere un gesto di riconciliazione. La ferita del “sette e mezzo”, evidentemente, stentava a rimarginarsi. Anche i suoi due figli, Carlo e Alessandra (quest’ultima balzata alla cronaca per essere stata l’amante di Gabriele D’Annunzio, concluse la sua vita da monaca carmelitana) con Palermo (e la Sicilia) ebbero rapporti sporadici.

Il recente centenario della sua morte (Roma 7 agosto 1908) è passato quasi inosservato. Il destino si conferma, ancora una volta, cinico nei confronti di un uomo che, fra alti e bassi, amò poco la città e nei momenti decisivi e drammatici non seppe ingraziarsene gli abitanti.

E i siciliani non sempre dimenticano!

Nota di Salvatore Musumeci

Presidente del Movimento per l'Indipendenza della Sicilia

L'EGOARCA di Francesco Tontoli - Traduzione in siciliano di Alessio Patti (versione originale in calce)


Timevi la virità comu la piggiuri malasorti.
Pirchì?
Specchiu di li to' smanìi t'avissi arrispunnutu a la fini
ma tu l'avrissi ruttu nta milli pizzudda
e nta un sulu pezzu di vitru
avrissi liggiutu: munzignaru!
e nta 'n-àutru: bastardu!
e nta l'ultimu: poviru omu!
Quanta virità strabuduta
quanti veri pàlpiti spirduti
e tu l'hai mpurtusati tutti
fatti jittari luntanu di li to' servi
vurricati comu li provi di lu to assassiniu.
Vulissi ripètiri ca nun si lu megghiu
comu allammicatu tu cridi e fa cridiri
e nun sì mancu lu peggiu comu nta lu sigretu spinni.


L'EGOARCA di Francesco Tontoli

Temevi la verità come la peggiore sventura.
Perchè?
Specchio delle tue brame ti avrebbe risposto alla fine
ma tu lo avresti rotto in mille pezzi
e in un solo pezzo di vetro
avresti letto: bugiardo!
e in un altro: bastardo!
e nell'ultimo: pover'uomo!
Quanta verità dissipata,
quanti autentici palpiti dispersi!
E tu li avresti occultati tutti
fatti gettare via dai tuoi servi
seppelliti come le prove del tuo omicidio.
Vorrei ripeterti che non sei il migliore
come miseramente credi e fai credere
e non sei nemmeno il peggiore come segretamente speri.

Valuri (di Erri de Luca) Tradotta in lingua siciliana da Alessio Patti (versione originale in calce)


Cunsiddiru valuri ogni furma di vita, la fràvula, la musca.
Cunsiddiru valuri lu regnu minirali, l'adunanza di li stiddi.
Cunsiddiru valuri lu vinu finu a quannu dura lu manciari, nu risu scappatu di la vucca, la stanchizza di cu' nun s'havi sgavitatu,
du' vecchi ca s'amanu.
Cunsiddiru valuri zoccu dumani nun vali nenti e zoccu oggi vali ancora picca.
Cunsiddiru valuri tutti li chiai.
Cunsiddiru valuri risparmiari acqua, abbirsari 'n-paru di scarpi, starisi mutu a tempu, curriri quannu si senti na vuciata, addumannari lu pirmissu prima d'assittarisi, pruvari ricanuscenza senza arricurdarisi di chi.
Cunsiddiru valuri sapiri nta na stanza unn'è lu nord, quali è lu nomu di lu ventu ca sta asciugannu la biancarìa.
Cunsiddiru valuri lu viaggiu di lu vacabunnu, la clausura di la monaca, la pacènzia di lu cunnannatu, qualunchi culpa me.
Cunsiddiru valuri l'usu di lu verbu amari e l'ipotisi ca esisti nu criaturi.
Tanti di sti valuri nun haju canusciutu.

Valore (di Erri de Luca)

Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l'assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finchè dura il pasto, un sorriso
involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato,
due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente
e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di
scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere
permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza
ricordare di che .
Considero valore sapere in una stanza dov'è il nord, qual
è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura
della monaca, la pazienza del condannato, qualunque
colpa mia.
Considero valore l'uso del verbo amare e l'ipotesi che esista
un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto.

Erri De Luca

Gli strumenti della democrazia partecipata in Sicilia


Di Antonino Macula

Nel rispondere alla domanda postata nella bacheca del gruppo "referendum per l'indipendenza Sicilia" dal Carissimo Pietro Di Caro, colgo l'occasione per introdurre una utile discussione sugli strumenti di democrazia partecipata utilizzabili nell'ambito della Regione Siciliana, nonché per sviluppare alcune riflessioni sulla utilità e finalità di questo specifico gruppo e dell’iniziativa che ne sta alla base. L'amico Di Caro chiede quante firme occorrono per l'attivazione di un Referendum nella Regione Siciliana. Risposta: il referendum in Sicilia è disciplinato dalla LEGGE REGIONALE N. 1 DEL 10-02-2004, la quale prevede che per la relativa indizione sono necessarie 50.000 firme di elettori siciliani, oppure la deliberazione di tre consigli provinciali rappresentativi di almeno il quindici per cento degli abitanti della Regione o di quaranta consigli comunali rappresentativi di almeno un decimo degli abitanti della Regione secondo i dati dell'ultimo censimento ufficiale. Va a riguardo precisato che la citata legge regionale disciplina solo (manco a dirlo) il referendum abrogativo, senza affatto fare riferimento alle opzioni propositiva e consultiva che pure sono previste all'art. 13 bis dello Statuto Siciliano.
A questo punto occorre aprire una oppoaruna “parentesi”. Grazie ad una specifica legge dello Stato Italiano, di cui in questo momento non ricordo gli estremi, i nostri "graziosi sovrani italioti" hanno sostanzialmente "disinnescato" tutti gli articoli del nostro Statuto. Tale norma rimanda infatti l'applicabilità delle prescrizioni dei diversi articoli statutari, a specifiche leggi attuative, senza le quali gli articoli dello Statuto Siciliano sono inapplicabili. Il perché di questa subdola strategia italiota è fin troppo chiaro: una volta “distrutta” (con illegittima e “criminosa” sentenza della Corte Costituzionale Italiana) l’ALTA CORTE prevista all’art. 24 dello Statuto Siciliano, tutte le norme emanate dall’Assemblea Regionale sono sottoposte alla “mattanza” del Commissario di Stato (al soldo del governo italiano), il quale provvede alla sostanziale “eliminazione” di tutte le iniziative legislative regionali “sgradite” ai “sovrani italioti”.
Ciò premesso, nel caso specifico dell’art. 13 bis dello Statuto Siciliano, viene quindi da chiedersi: perché il legislatore regionale ha preferito disciplinar SOLO il referendum abrogativo e non TUTTO il citato articolo che comprende anche i referendum propositivi e consultivi???. E qui le risposte possono esser solo due (salvo una terza che è composizione delle prime due): 1) o il legislatore regionale, temendo la mannaia del Commissario di Stato, ha preferito mantenersi nell’ambito delle prerogative riconosciute indistintamente a TUTTE le regioni italiane a prescindere dalla specialità dello Statuto Siciliano; 2) oppure, interviene ancora una volta il carattere ascarico delle nostre rappresentanze politiche regionali, che, per dovere di servilismo nei confronti del “padrone”, hanno per l’ennesima volta “venduto” lo Statuto Siciliano ed il Popolo Siciliano ai “sovrani italici”.
Ma torniamo alla tematica iniziale: il referendum abrogativo. Ovviamente nel caso specifico di questo gruppo, il referendum dovrebbe riguardare la famigerata “legge” che ha previsto l’annessione “plebiscitaria” della Sicilia ad Ducato Savoia (ricordo che il Ducato Savoia divenne Regno solo perché alla fine usurpò il titolo ai Borboni).
(Breve parentesi sull’ignobile menzogna storica del “plebiscito”: i Siciliani erano tanto contenti di aderire all’Italia che il giorno dopo la proclamazione dell’annessione si rivoltarono in massa contro i Savoia (1861), i quali, nel “nobile” intento di “imporre” la loro “liberazione” a quei poveri “villici” che di “libertà” non capivano nulla, si videro “costretti”, poverini, a trucidare decine di migliaia di “zotici Siciliani”, che sin da allora erano degli sporchi “terroni”, comprese donne, anziani, bambini, preti e frati).
E’ fin troppo ovvio che, allo stato delle cose un tale referendum ha natura essenzialmente “provocatoria”. Sia perché, in atto, il popolo Siciliano, purtroppo, si trova ancora è in massima parte “narcotizzato” dalla ultrasecolare propaganda italiota (anche se recentemente si notano importantissimi “segnali di risveglio”). Sia perché allo stato, in assenza delle garanzie istituzionali dell’ALTA CORTE, lo Stato italiano si affretterebbe a far dichiarare incostituzionale il referendum dalla Corte Costituzionale Italiana. Laddove quindi si volesse procedere formalmente al referendum ci si dovrebbe battere, propedeuticamente, per la reistituzione dell’Alta Corte di Sicilia.
Ma allora a cosa serve portare avanti OGGI l’iniziativa di questo gruppo? Essa serve in buona sostanza a far sapere ai “sovrani italici” che: NOI Sicilani (almeno tutti quelli che condividono questa iniziativa), siamo perfettamente consci e consapevoli delle vostre IGNOBILI MENZOGNE che ci avete ostinatamente e continuamente propagandato. Sia di quelle storiche che di quelle attuali. Siamo perfettamente consci e consapevoli che dietro l’ipocrita parvenza di buonismo che ci fate “studiare” sui VOSTRI libri di storia e che ci propinate a ripetizione con i vostri organi di stampa e le vostre televisioni di regime, c’è l’inequivocabile, ignobile e ripugnante intento di distruggere il nostro popolo e di sfruttare, sino all’ultima briciola, le risorse della nostra terra e riducendoci sostanzialmente alla fame, attraverso le più becere, vigliacche ed indegne strategie, come l’uso delle organizzazioni mafiose e l’alimentazione dei circuiti clientalari, antimeritocratici ed ascarici della stessa politica regionale.

"Memorie" di Concetto Gallo, secondo Turri, successore di Canepa. (5a parte)


Storia del Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, raccontata dal comandante dell'EVIS, secondo Turri, successore di Canepa, in una intervista poco nota del 1974.

(Intervista di E.Magri, 1974 - Riproposta nel 2009 sul settimanale "Gazzettino di Giarre" dal Prof. Salvatore Musumeci")

Quarantotto ore con Giuliano: "nell’estate del 1945, a Ponte Sagana, incontrai il re di Montelepre"


«Esposi a Lucio Tasca la mia idea di parlare con Giuliano, al fine di garantirci nella eventualità di una sistemazione dei giovani dell’EVIS nella sua zona. Tasca rise: “Sì ora fai il numero di telefono e ti risponde Giuliano”. Lo lasciai e insieme con Guglielmo di Carcaci effettuammo un giro nelle sezioni alla ricerca di un contatto utile a fare arrivare un messaggio a Giuliano.

Un paio di giorni più tardi mi indicarono la zona dove operava Giuliano: Ponte Sagana, e partii. In auto eravamo in quattro: io, Guglielmo di Carcaci, Stefano La Motta, il corridore automobilista, e un certo Pietro Franzoni. Arrivati a Ponte Sagana, in base alle indicazioni avute, dissi loro di fermarsi, di lasciarmi, di ripartire e di ritornare due giorni dopo. M’incamminai e dopo mezz’ora lo incontrai.

“Chi vi manda qui?”, domandò il giovane. “Mi chiamo Concetto Gallo, sono indipendentista, il comandante dell’Evis”, risposi. E aggiunsi: “E voi chi siete?”. Rispose: “Giuliano sono. Salvatore Giuliano”. Eravamo a Ponte Sagana, sulla strada Palermo-Trapani, un giorno del mese di agosto 1945. Era la prima volta che vedevo Turiddu Giuliano.

Giuliano era solo. Non era vero che andasse sempre circondato dai suoi uomini. Agiva sempre da solo. L’intesa fu quasi immediata. Lui disse di conoscermi “di fama”. A poco a poco si raggiunse la completa fiducia reciproca. Tanto è vero che a un certo punto della notte mi disse: “Ora io dormo un’ora e vossia fa la guardia. Poi, quando io mi sveglio, si appisola vossia”. E mi diede il mitra. Poco dopo sentii un rumore, lo svegliai ma lui, sicuro: “Vossia non si preoccupi: dev’essere stata una lepre”.

Di che cosa parlammo con Giuliano? Per la verità all’inizio parlai soltanto io. Feci quello che si dice l’indottrinamento. Cercai di spiegargli, con parole acconce, in modo che lui le potesse capire, che cosa aveva rappresentato l’Italia, l’unità, per la Sicilia. E cominciai sin dai tempi di Verre. I saccheggi, le spoliazioni, le distruzioni, le amarezze. Gli portai altri esempi: “Hai mai sentito parlare dei cantieri Florio? Ebbene quei cantieri furono chiusi quando, con l’unità d’Italia, l’industria cantieristica di Florio divenne la Florio-Rubattino”. E lui: “Ah, sì”. “Esisteva in Sicilia una grande industria di ceramica che aveva 400 operai. Quell’industria venne acquistata dalla Ginori e subito chiusa. Garibaldi? Anche Garibaldi tradì i siciliani”. Alla fine lui mi disse: “Ma allora che cosa ci hanno insegnato?”. E io: “Il falso”.

Poi gli esposi lo scopo della mia visita, che avevo cioè da sistemare i giovani dell’Evis rimasti sbandati dopo l’eccidio di Randazzo e la morte del comandante Canepa.

Naturalmente si parlò anche di operazioni. Io ero propenso per un allargamento della lotta nella zona occidentale. Lui rispose: “Qui no”. E mi spiegò le ragioni. Che erano queste: trattandosi di zone brulle sarebbe stato difficile un vero e proprio rifornimento per l’esercito. Infatti lui, di problemi, sotto questo profilo, non ne aveva in quanto la sua banda si riuniva solo occasionalmente; per il resto, infatti, gli elementi di Giuliano vivevano come pacifici contadini.

Quindi lì, a Partinico, no. Per il resto la collaborazione sarebbe stata stabilita caso per caso. È assolutamente falso, ignobilmente falso, che io abbia promesso a Salvatore Giuliano la immunità per tutto quello che aveva commesso. È falso perché sarebbe stato sciocco, stupido, controproducente fare una simile promessa.

A un certo punto di quelle quarantotto ore in cui noi due siamo stati insieme mi raccontò la sua vera storia. E fu alla fine di quel racconto che io gli dissi questo: “Senti, Turiddu, io non ti posso promettere nulla. O perlomeno non molto. Ma questo che ti dico te lo posso promettere, sono autorizzato a prometterlo anche a nome degli altri i quali, se io domani dovessi morire, manterranno la mia parola. Io ti prometto che, se tu in questa lotta ti comporterai bene, dimenticando tutto il resto e guardando all’ideale dell’indipendenza, soltanto a quello, ti prometto che se vinceremo noi avremo una giusta considerazione per te e tu sarai giudicato per quelle che sono le tue vere colpe”.

Era un discorso tra uomini. Onesto, tra due latitanti. Gli avevo detto, infatti: “Vedi, tu sei qua sopra le montagne per i tuoi motivi; noi siamo sulle montagne per altri motivi. Noi potevamo stare benissimo nelle nostre case. Invece abbiamo deciso di batterci per un ideale di libertà e di indipendenza. Libertà e indipendenza che se la Sicilia avesse avuto prima, avrebbero inciso sul suo sviluppo economico e, certamente, tu, oggi, non saresti qui, in questa situazione”.

Con Giuliano, dunque, cercai di trovare un’intesa su un ideale e non una complicità mafiosa. Certo, molti hanno parlato di rapporti tra indipendentismo e mafia. E i rapporti ci furono indubbiamente. Ma furono rapporti cercati più dalla mafia che dagli indipendentisti.

E mi sembra anche abbastanza logico per un paese come la Sicilia. Inizialmente, è vero, la mafia, ma la mafia di Vittorio Emanuele Orlando, la mafia che cercava il potere, fu tutta con noi. Era stata debellata da Mussolini, dal prefetto Mori e con l’invasione alleata cercò di ricostruire le sue fila e cercò di inserirsi nell’area del potere.

È vero. All’inizio fu con noi. Chi era, infatti, il cavallo vincente tra il 1943 e il 1945? Naturalmente il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. E, infatti, arrivarono tra le nostre file. Poi quando si ricostruirono i partiti, quando la conferenza di Yalta spartì ufficialmente il mondo e americani e inglesi, sicuri che l’Italia sarebbe appartenuta al mondo occidentale, lasciarono il Movimento a se stesso, la mafia capì quello che avevano capito anche alcuni degli indipendentisti traditori: che il potere, il vero potere sarebbe stato esercitato da altri partiti, non dal Movimento. E ci abbandonarono. I rapporti con Giuliano furono, dunque, per una intesa sul terreno dell’indipendentismo e della lotta clandestina.

Dopo quarantotto ore di colloqui a quattrocchi, Giuliano mi accompagnò a Ponte Sagana. Ci stringemmo la mano e ci salutammo. “Chi tocca a vossia, mori”, mi disse, e ci abbracciammo. Era commosso. Non dimenticherò mai quegli occhi. Non lo avrei mai più visto. Giù vicino al ponte c’era già l’automobile con Carcaci, La Motta e Castrogiovanni che mi attendeva. Montai in automobile e rientrai a Palermo.

Un paio di giorni più tardi lasciai Palermo e mi spostai a Caltagirone, a San Mauro di Sotto, dove c’era una proprietà che apparteneva a mia moglie e dove io avevo collocato le nuove forze dell’Evis; una sessantina di giovani di ogni parte della Sicilia, in maggior parte messinesi, con le divise dell’Evis. Giovani che mantenevo io, con i soldi che riuscivo a ricavare dalla vendita dei prodotti della proprietà di mia moglie. Perché, di finanziamenti, il Mis e l’Evis non ne ebbero mai. I finanziamenti erano rappresentati dai contributi che ciascuno di noi pagava. Piccoli contributi di danaro e grandi contributi di sangue.E fu proprio col sangue che finì l’avventura dell’Evis. Proprio a San Mauro di Sopra, al Piano della Fiera, dove la mattina del 29 dicembre 1945 l’esercito sostenne la sua prima e ultima battaglia.

La prima e l’ultima battaglia combattuta tra siciliani e italiani, tra Sud e Nord, cominciò il 29 dicembre 1945 sul Piano della Fiera, a pochi chilometri da San Mauro di Sopra, nei pressi di Caltagirone. I siciliani erano una sessantina, sotto il mio comando: morto Canepa, come ho detto, io ero diventato il secondo comandante dell’EVIS sotto il nome di Secondo Turri.

Gli italiani erano oltre cinquemila ed erano sotto il comando di cinque generali. Con loro avevano un aereo da ricognizione, cannoni, mortai, fucili, mitra e carri armati.

Anche la battaglia, come del resto ogni altro episodio che ci interessava, in quei giorni fu preceduta da un tradimento, il solito tradimento all’italiana. Alla morte di Antonio Canepa erano seguiti il riordinamento del nostro esercito sotto la mia guida e tutta una serie di collegamenti tra cui quello da me operato con Giuliano. Lo scontro decisivo, però, tardava a venire e di questo ne avevano approfittato le due parti, indipendentisti e governo centrale, che nel 1945 era ormai insediato a Roma, per risolvere sul piano politico la questione dell’indipendenza siciliana».

Commento del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

Dopo avere incontrato Gallo, Giuliano si entusiasmò per gli ideali indipendentisti e nelle sue azioni di guerriglia inalberò, con orgoglio, il vessillo giallo-rosso. Senza dubbio, il nuovo impulso che venne dato alla propaganda separatista, in un linguaggio non troppo ortodosso, a Montelepre e nei paesi vicini, era attribuibile all’azione di Giuliano, dei suoi parenti e dei suoi collaboratori.

È significativo, a tal proposito, un manifestino dattiloscritto, che circolò in San Giuseppe Jato, nel quale veniva fatto il nome di Giuliano, fra l’altro, contenente il seguente invito: “Siciliani! Unitevi in squadre, formate le bande e combattete per la libertà, …, a morte la Polizia Italiana che agisce ancora fascisticamente contro il popolino siciliano”. Di analogo tenore erano le note della Prefettura di Palermo e del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, che segnalavano scritte sui muri, manifesti, iniziative politiche, di matrice separatista, supportate da Giuliano e dai suoi uomini. L’idillio con il Separatismo e la disistima verso Andrea Finocchiaro Aprile e gli altri dirigenti, da parte di Giuliano, aumentò a dismisura quando quest’ultimo apprese dai propri legali che l’amnistia del 20 giugno 1946, applicata a molti giovani dell’Evis, non sarebbe stata estensibile a lui stesso e ai componenti della sua banda, perché colpevoli di reati comuni commessi sia prima e sia dopo il periodo della loro militanza nell’Esercito Separatista.

(5. Continua –“Memorie” di Concetto Gallo, da un’intervista di E. Magrì, 1974)

La bandiera di Sicilia Libera FSL


Bandiera della Federazione dei Movimenti Sicilianisti “Sicilia Libera ” FSL. - Sotto questa bandiera si sono riuniti il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia, il Movimento Agricolo Europeo, il Partito Autonomista Sicilia e il Partito del Popolo Siciliano che già avevano aderito alla federazione, nonché l’Altra Sicilia, storico movimento sicilianista della diaspora siciliana che ha sede a Bruxelles

Eccu chi sì - Maravigghiusa picciotta siciliana - di Alessio Patti (con traduzione in calce di Michele Cologna)


Sì comu l’immagini di na tila pittata
unni ju scopru priziusa tant’arti ispirata.
Chiu’ ti talìu e chiu’ mi pari pinzata
d’estru di mari e di terra ncantata.
L’occhi non staccu di lu to paradisu
pirchì dintra d’iddu c’è sulu risu.
C’è gioia vera, china 'i sapuri,
d’arcobalenu sului i culuri.

Traduzione in lingua poetica italiana di Michele Cologna

Tu, meraviglia siciliana, ecco chi sei…

Come immagine su tela pittata,
ti scopro preziosa da arte ispirata.
Ti rimiro e più ti specchio pensata,
capriccio di mare, terra incantata.
Gli occhi rapiti dal tuo paradiso,
scorgono unico il suo sorriso.
Verità di gioie e orci di sapori,
de l’arcobaleno tutti i colori.

Traduzione in lingua sarda a cura di Ventura Musu

Bie chie ses, pizzinna de ispantu siciliana

Ses comente una màzine in tela pintada
t' iscoperrio 'e balore de arte ispirada.
Prus ti pompio e prus mi pares pessada
cascavellu de mare, terra incantada.
Sos ocros furaos dae s'artu 'e sos chelos
chi biene solu iscanzu 'e anghelos.
Beridades de gosu e guppos de sapores
de s'arcu 'e chelu tottus colores

Non è solo una questione storica


Di Marcello Io
Con questa nota voglio rispondere ad un amico che molto garbatamente mi faceva notare che le rivendicazioni indipendentiste non possono fermarsi a questioni storiche.
Io lo ringrazio perchè ciò mi permette di charire la questione.

Ovviamente una questione esclusivamente storica, non giustificherebbe la volontà di essere indipendenti; anche se il semplice fatto che lo Stato italiano ci ha voluti sradicare dalle nostre radici per distruggere la nostra identità di popolo, dovrebbe far riflettere sulla moralità di tale Stato e sui suoi obiettivi nei nostri confronti.
Comunque c'è dell'altro, il problema è anche economico, sociale, è di rispetto della Costituzione.
Si, proprio quella Costituzione, o meglio di quel pezzo di carta di dubbio valore reale a quanto pare, che lo Stato italiano non ha mai rispettato.
Il nostro Statuto, antecedente alla Repubblica italiana, e poi da essa totalmente riconosciuto, è stato fin da subito svuotato a volte costituzionalmente grazie al piazzamento dei partiti italiani di loro accoliti sia nel parlamento siciliano che alla presidenza di esso, approvavando leggi contro la Sicilia in cambio di qualche prebenda personale; ma tante altre volte questo svuotamento e questo non rispetto dei patti statutari è avvenuta in maniera incostituzionale, senza che nessuno che ricoprisse cariche politiche nello Stato italiano non solo muovesse un dito, ma aprisse anche bocca.
Potrei citare l’esempio dell’Alta Corte, organo super parters composto da elementi scelti dalla Regione Siciliana e dallo Stato Italiano, per dirimire i contenziosi tra le due entità giuridiche; questo organo è stato unilateralmente e quindi incostituzionalmente sostituito dallo Stato italiano attraverso una sentenza della Corte “Costituzionale”.
Da quando esiste la Corte, la maggior parte delle sentenze sono a favore dello Stato italiano; sarà un caso…chissà!
Già da questo si capisce come lo Stato Italiano sia uno Stato fuorilegge, ma posso continuare, ad esempio in base allo Statuto l’IRAP, l’IRPEF, l’IVA non dovrebbero essere pagate allo Stato italiano, bensì alla Regione Siciliana.
E poi dicono che la Regione succhia soldi allo Stato (sic!)
Parliamo delle accise sulla benzina che in base allo Statuto spetterebbero alla Regione ed invece con la solita arroganza che contraddistingue gli industriali del nord, coccolati e salvaguardati dallo Stato italiano, essi mettono nelle proprie saccocce; incuranti, inoltre, del danno ambientale e della salute che provocano a chi abita in quelle zone; ma questo allo Stato italiano non importa, noi siamo carne da macello!
Altro caso di illegalità dello Stato italiano è la presenza dei Prefetti all’interno dei confini della Regione Siciliana, ma anche delle province, solo che in questo caso i furbacchioni dei partiti italiani hanno fatto votare la legge al parlamento siciliano creando le Province “Regionali”; un altro classico esempio di come si aggirano le leggi, in cui lo Stato italiano è maestro!
Andiamo all’ultimo caso in ordine di tempo: il ddl richiesto dal Senato per far sì che il parlamento siciliano possa sfiduciare il Presidente della Regione senza che cada il parlamento stesso; a parte la amoralità della mossa atta a togliere valore alla scelte fatta nella cabina elettorale in quanto il Presidente viene eletto direttamente dai cittadini; questa legge è voluta per fare cadere Lombardo che sta rivendicando l’autonomia della Regione; ma come detto, oltre alla amoralità del gesto, c’è l’incostituzionalità della prassi, in quanto una modifica dello Statuto dovrebbe essere richiesta e votata prima dal parlamento siciliano.
Come potete ben notare lo Stato italiano è fuorilegge; proprio quello Stato che invece le Leggi le dovrebbe far rispettare.
Il Presidente Lombardo ha dichiarato ultimamente che si sarebbe rivolto all’ONU; forse è stata solo una provocazione per far spaventare i partiti italiani, ma credo che abbiamo tutti i diritti per farlo ed anzi dovremmo forzare la mano al Presidente affichè lo faccia veramente, in modo che si ripettino le regole una volta per tutte.
Tutto ciò fin qui elencato è più che sufficiente per richiedere l’indipendenza da coloro che non rispettano le regole e ci trattano da colonia, ma visto che ormai ho preso l’argomento, mi piace continuare perché non è finita qui.
Diamo una occhiata alle infrastrutture presenti nella nostra isola e nella parte meridionale della penisola italica e confrontiamole con quelle del nord; è una situazione normale? Soprattutto è una situazione giustificabile?
La riposta, ovviamente, e NO!
Questo gap infrastrutturale è la prova provata del fallimento di uno Stato serio e soprattutto è la prova che siamo una colonia, ma allo Stato italiano ciò non basta e non interessa, è troppo avido lui; ora stanno smantellando anche la ferrovia, inadeguata per l’epoca in cui viviamo, però rifanno le stazioni, forse per dare lavoro a qualche impresa edile del nord o siciliana ma affiliata al clan dei partiti italiani.
E la Cassa del Mezzogiorno? Credevate che me la fossi dimenticata. Essa rappresenta uno dei più spregevoli ed ipocriti atti, insieme a quelli precedenemente citati, che uno Stato possa fare nei confronti dei propri cittadini.
La Cassa del Mezzogiorno è stato il mezzo con cui gli industriali del nord hanno potuto rubare i soldi destinati alla Sicilia ed al sud italia; essi smantellavano le loro industrie decrepite del nord, le impiantavano al sud ed in Sicilia, si prendevano i finanziamenti, dopo un anno la maggior parte chiudeva e riaprivano nuove industrie al nord.
Un esempio su tutti è la raffineria di Milazzo, smantellata da Genova in quanto vecchia e portata in Sicilia…CHE SCHIFO!!!
Più o meno questo principio è lo stesso che ha regolato l’elarginazione, o meglio la mancata elarginazione, dei fondi FAS spettanti alla Sicilia, che molto probabilmente sono andati a finire nella costruzione dell’Expo di Milano.
Ci sarebbe ancora tanto altro da dire, ma concludo dicendo che chi non conosce i propri diritti, non li potrà mai rivendicare!

SICILIA INDIPENDENTE!

ANTUDO

A na bedda picciotta (ca fimmina sta divintannu) - di Alessio Patti (traduzione in calce)


Com'è nzùccarata ssa vuccuzza
quannu unu si ci attruzza,
o si ridi di cuntintizza
mentri parra di ducizza.

Li so’ trizzi daccussì giniusi,
dd’aricchiuzzi nichi e maliziusi,
dd’occhi azzurri e mpircantati,
mi li sonnu ntra li me’ nuttati.

Li so’ minnuzzi pàrunu nfatati,
prufumanu di zagara e di sinceritati
e si lu dicu non c’è vriogna…
pirchì la virità nun è minzogna!


Traduzione poetica in lingua italiana di Michele Cologna

Ad una bella ragazza (che sta diventando donna)

Zucchero filato le tue parole
E riso gaio di dolcezza fusa
La tua bocca effonde quando
All’ascolto uomo si avvicina.

Fili d’oro le tue trecce ornano
Orecchie maliziose e piccole
Che d’occhi azzurri e incanto
Fascinano me di sogni e notti.

Boccioli di zagara profumati
I tuoi seni e di sincerità fatati.
De le parole alcuna vergogna
Perché è verità no menzogna.

ANCORA SOLDI ALLA FIAT. La politica dell’affare non cambia

Di Antonella Morsello

Sicilia Libera, Federazione Movimenti Sicilianisti apprende con stupore che il Presidente della Commissione Parlamentare Attivita’ Produttive dell’ars, Salvino Caputo ha presentato una mozione parlamentare per impegnare il Governo della Regione a intervenire presso il governo Berlusconi per garantire il mantenimento dello stabilimento Fiat di Termini Imerese e il suo indotto e per coinvolgere l’azienda termitana nella produzione del modello Y e di nuovi altri modelli automobilistici, mediante profusione di ingenti somme di denaro pubblico.

Secondo Caputo, vecchio politico nazionalista e con poche idee, il governo ha il dovere di assicurare risorse economiche ed interventi legislativi, per garantire e favorire il progetti di mantenimento e di rilancio dello stabilimento Fiat di Termini Imerese.

Non sono bastati i miliardi di euro profusi con generosità peccaminosa alla gioiosa FIAT che con lo stabilimento di Termini Imerese ha munto la vacca regionale speculando sul doppio fronte “donazioni regionali e condizioni fiscali di vantaggio” guardando ai propri interessi economici e non certo a quelli degli operai e della collettività.

Con i soldi donati alla FIAT per salvaguardare gli interessi aziendali e politici e non certo degli operai, la regione avrebbe potuto aprire prospettive economiche per il quadruplo di addetti e in settori redditizi per la collettività e non per i soliti … Agnelli e furbetti del quartiero.

Sicilia Libera – FSL invita il Presidente della Regione Siciliana a desistere dal mettere in atto una nuova operazione di donazione di denaro pubblico all’azienda FIAT che da anni ripete ossessivamente che Termini comunque è un ramo secco ed improduttivo.

La Regione ha il dovere di intervenire ma questa volta rilevi lo stabilimento per una sua riconversione industriale possibilmente tenendo conto della necessità di garantire ambiente e posti di lavoro.

giovedì 3 settembre 2009

La BRIGANTESSA Francesca La Gamba


Contributo di Neva Allegra

E' difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima significativa figura femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816).

Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da un'incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l'avevano colpita negli affetti più cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò in seconde nozze. Avvenente d'aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le mire di un ufficiale francese che, invaghitosene, tentò - forte della sua posizione sociale - di sedurla. Respinto dalla fiera Francesca il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l'esercito francese di occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli della donna, accusandoli di essere gli autori della bravata. Alle suppliche di Francesca, l'ufficiale fu irremovibile: i giovani subirono un processo sommario e furono fucilati.

Francesca, pazza di dolore, si unì ad una banda di briganti che operava nella zona, dismise gli abiti femminili ed indossò quelli dei briganti.

In breve fornì prove di ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a quando un loro drappello cadde in un'imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse proprio l'ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante.

Nell'orrore di questa vicenda, pure caricata di colore dal mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli affetti feriti, l'irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati.

"Memorie" di Concetto Gallo, secondo Turri, successore di Canepa:quarta parte

Quarta parte dell'importante documento gentilmente concesso dal Fratello Santo Trovato.

Storia del Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, raccontata dal comandante dell'EVIS, secondo Turri, successore di Canepa, in una intervista poco nota del 1974.

(Intervista di E.Magri, 1974 - Riproposta nel 2009 sul settimanale "Gazzettino di Giarre" dal Prof. Salvatore Musumeci")

Morto Canepa, una parte degli indipendentisti era per il mantenimento della legalità; l’altra, per la ristrutturazione dell’esercito e per la lotta clandestina fino a quando non avessimo ottenuto l’indipendenza.


«Mentre ero in clandestinità, a Palermo, avvenne un episodio che mi riguardò personalmente: incontrai un personaggio dell’Intelligence Service, un uomo di grande prestigio, tuttora in vita (1974, ndr). Parlando con questo personaggio io cercai di sondare l’opinione inglese a proposito dell’indipendentismo per il quale noi stavamo combattendo. Si può immaginare come parla un inglese che fa parte dell’Intelligence Service.

Ebbene, senza alcun giro di parole quest’uomo, che, ripeto, è ancora vivo ma di cui non posso fare il nome, quest’uomo inglese cominciò a parlare della tradizionale amicizia tra Sicilia e Inghilterra, di Nelson e così via. Poi continuò, e disse pressappoco: “Sa, evidentemente noi stiamo con l’occhio molto vigile sui movimenti come quello in cui lei opera. Siamo molto vigili soprattutto qui in Sicilia tenuto conto della posizione dell’isola. Un nostro intervento, un intervento dell’Inghilterra e dell’America, può tuttavia essere giustificato a una condizione: che ci sia un fatto, qualcosa di irreversibile che possa giustificare una nostra presa di posizione”.

Il discorso mi sembrò chiarissimo. Anche se noi, se io non avevo preso accordi ad alto livello, anche se io ero all’oscuro di accordi tra i capi del Movimento e alleati, accordi che, credo, non ci siano mai stati perché se no Andrea Finocchiaro Aprile me ne avrebbe messo al corrente, anche se io non ero ufficialmente informato di accordi tra alleati e indipendentisti, quello mi sembrò, mi parve, un incoraggiamento. L’altro episodio lo narrerò più avanti.

Torniamo, pertanto, a Canepa. In effetti, questi forzando alcune posizioni di legalitarismo, costituì l’Evis, l’esercito, e decise la dislocazione dell’esercito nella zona di Cesarò, che si trovava al confine con due province ed era circondata di boschi. Le divise vennero improvvisate con materiale americano acquistato al mercato nero. Quanto alle armi, non possedevamo che quelle che avevamo tolto ai militari della Sabauda al tempo della sfida e alcuni mitra e fucili che Canepa aveva recuperato presso un contadino che venne minacciato di fucilazione se non li avesse consegnati. Proprio così. Canepa sapeva che il contadino possedeva quelle armi. E quando l’uomo negò, lui ordinò a due suoi uomini di scavare una fossa e di fucilarlo. Naturalmente il contadino ci diede tutto. Ma l’esercito di Canepa non combatté nessuna battaglia. Perché il comandante dell’Evis venne ucciso in un agguato dai carabinieri reali, la mattina del 17 giugno 1945.

L’avevo visto la sera precedente, il sedici. Doveva andare a Francavilla per recuperare un certo contingente di armi. Per conto mio avrei dovuto acquistare un certo numero di divise americane che dovevano servire per “vestire” le giovani reclute dell’Evis.

Il 17 giugno, mentre stavo per lasciare Catania, ricevetti una telefonata da Guglielmo duca di Carcaci, comandante della Lega Giovanile e comandante generale dell’Evis. Mi disse: “Hanno ammazzato Canepa. Non ti muovere. Ti verrò a prendere io”.

Partimmo insieme verso Cesarò e ci rifugiammo nella ducea di Nelson, presso Bronte. Trascorsi alcuni giorni, arrivò un’automobile. Alla guida c’era un ammiraglio della marina degli Stati Uniti. Accanto una bella signora. Dietro, Guglielmo di Carcaci con in testa un cappello da commodoro. Entrai in fretta e furia nell’automobile, m’infilai una giacca da ammiraglio degli Stati Uniti, misi in testa il berretto da commodoro e l’automobile s’avviò. La città era circondata da polizia e carabinieri. Un vero presidio con posti di blocco ovunque.

Ovunque uomini e barriere che si alzavano solo dopo che la polizia aveva controllato i documenti di chi voleva lasciare la città. Noi arrivammo al posto di blocco di Ognina. L’ammiraglio si fece riconoscere e la pattuglia dei carabinieri con un perfetto saluto aprì la barriera.

Ecco, questo è il secondo episodio che mi diede personalmente la misura della simpatia che il Movimento godeva presso gli alleati.

E infatti la sera stessa, dopo una sosta con colazione a Taormina, giungemmo a Palermo, dove, insieme col duca di Carcaci, restammo ospiti a Villa Wittinger, che era la sede del comando alleato in Sicilia. A Villa Wittinger incontrai l’uomo dell’Intelligence Service inglese, il personaggio che mi avrebbe dato con le sue allusioni una conferma tangibile alle supposizioni che avevo fatto durante il tragitto da Catania a Palermo. Carcaci mi aveva detto che il merito di quel passaggio sull’auto dell’ammiraglio spettava alla nobildonna siciliana che aveva viaggiato con noi. Un fatto di galanteria? Probabile. Ma l’ammiraglio galante doveva essere sicuro che, qualora la cosa fosse stata scoperta, lui non avrebbe avuto nulla da temere. In sostanza, si sentiva coperto.

Morto Antonio Canepa, l’Evis era rimasto senza comandante. A Palermo dove ero stato accompagnato dall’ammiraglio americano, cominciai a prendere i contatti con tutti gli indipendentisti. Dopo essere rimasto due giorni a Villa Wittinger mi trasferii in casa dell’avvocato Sirio Rossi, un socialista indipendentista che allora abitava nella zona dell’Uditore, una zona nella quale alle sei di sera non si poteva già uscire.

Gli accordi di Yalta, avvenuti nel febbraio precedente, avevano già determinato alcuni ripensamenti fra le nostre file. Era già rientrato Togliatti dalla Russia; c’era già il governo di Parri; i partiti si erano ricomposti. E tra noi erano cominciate le incrinature.

La riunione decisiva venne tenuta nella villa di Lucio Tasca, già sindaco di Palermo, a Mondello. Una parte degli indipendentisti era per il mantenimento della legalità e per la definitiva rinuncia a un’operazione armata. L’altra era per la ristrutturazione dell’esercito e per la lotta clandestina fino a quando non avessimo ottenuto l’indipendenza. Io cercai di rompere gli indugi. Chiesi che non soltanto venisse ricostruito l’Evis ma che tutti i presenti s’impegnassero a firmare un documento nel quale si giurasse solennemente di non cedere. Antonino Varvaro fece l’inferno. Non voleva. La riunione s’interruppe. Mi affacciai per prendere una boccata d’aria con Finocchiaro Aprile e altri. Dissi: “Tra di noi c’è un traditore”. “Chi è?” mi domandarono. Risposi: “Varvaro”.

Tornammo in sala: le proposte erano due: rafforzamento della Lega Giovanile e scioglimento dell’Evis, una; l’altra, la mia, lotta armata. La riunione si sciolse prima che venisse presa una decisione».

Commento del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

L’intuizione di Gallo sul comportamento di Varvaro non era peregrina. I rapporti fra quest’ultimo e Andrea Finocchiaro Aprile si andarono deteriorando fino a giungere ad una scissione, che avvenne durante il III Congresso del Mis, celebratosi a Taormina nei giorni 31 gennaio, 1, 2 e 3 febbraio 1947. In realtà, prima ancora che il Movimento potesse adottare una strategia politica per fronteggiare i nuovi sviluppi della vita democratica siciliana, avvennero in seno ad esso una serie di avvenimenti strani (ricordiamo che durante l’internamento a Ponza dei leader indipendentisti, inspiegabilmente, Varvaro aveva avuto un trattamento di favore dalle forze dell’ordine), dei quali è pressoché impossibile comprenderne la vera natura, ma che sono riconducibili al pluralismo delle posizioni ideologiche, contrastanti tra di loro, e “conviventi” all’interno di esso, in un clima di progressiva litigiosità. Infine, in occasione del Referendum “Monarchia o Repubblica” si erano determinate due linee politiche, una a favore della monarchia e l’altra contraria. Per questa ambiguità, non pochi, soprattutto nel movimento giovanile, accusavano Andrea Finocchiaro Aprile di non aver ribadito, con forza, la originaria posizione repubblicana.

Per appianare la querelle, il Leader, dopo una lunga premessa, richiamante la scelta repubblicana dei precedenti congressi, fece approvare una mozione che dichiarava l’accettazione leale totale del Regime Repubblicano. Il Mis, pertanto, non avrebbe avuto verso la Repubblica Italiana alcun motivo di contrasto “sino a quando Essa riconoscerà e rispetterà i principi comuni agli Stati a Regime Costituzionale, garantendo la collettività dei singoli da aggressioni totalitarie, da qualunque parte vengano, e sino a quando consentirà il libero sviluppo delle idee indipendentiste su un piano di rigorosa legalità”. La mozione si concludeva con una frase sibillina: “(il Mis ndr.) lascia ai suoi aderenti libertà di pensiero individuale sul tema istituzionale”.

Tutti contenti e d’accordo, quindi? Niente affatto. I dissidenti guidati dall’on. Varvaro e dall’avv. Anselmo Crisafulli, dopo un vivace dibattito e dopo una serie di pregiudiziali, dall’una e dall’altra parte, abbandonarono l’aula mentre la Presidenza del Congresso li dichiarava espulsi.

La maggioranza assoluta dei congressisti testimoniò la fiducia ad Andrea Finocchiaro Aprile, che rimase il leader del Movimento. Varvaro si dedicò, con entusiasmo ma con minore seguito, a promuovere il Misdr (Movimento per l’Indipendenza della Sicilia Democratico Repubblicano), qualificandosi come uomo di sinistra, alternativo al vecchio gruppo dirigente indipendentista.

Nelle consultazioni elettorali del 20 aprile 1947 per eleggere la I Assemblea Regionale Siciliana, il Mis confermò, sostanzialmente, i risultati del 1946 conseguendo 171.470 voti e otto deputati con l’8,75% dei suffragi. Furono eletti: Andrea Finocchiaro Aprile, Attilio Castrogiovanni, Concetto Gallo, Giuseppe Caltabiano, Rosario Cacopardo, Gaetano Drago, Gioacchino Germanà, Pietro Lanolina. Ad Andrea Finocchiaro Aprile, dimessosi il 2 marzo 1948 per partecipare alle prime elezioni politiche della Repubblica Italiana, subentrò Vincenzo Bongiorno.

Il Misdr di Varvaro ottenne, complessivamente, 19.565 voti pari all’1%, raccolti prevalentemente nella Provincia di Palermo, dove aveva avuto l’appoggio di Giuliano, senza conquistare alcun seggio. Il crollo elettorale del Mis non era ancora avvenuto. Avrebbe avuto luogo l’anno successivo nelle Elezioni Politiche del 18 aprile 1948, nelle quali l’attenzione dell’elettorato fu concentrata maggiormente sul confronto tra comunismo e anticomunismo.

(4. Continua –“Memorie” di Concetto Gallo, da un’intervista di E. Magrì, 1974)

mercoledì 2 settembre 2009

"Il lupo perde il pelo ma non il vizio"


Contributo di Antonino Macula

Ho sentito oggi su radio radicale una intervista al Ministro Sacconi. Egli, dopo la condivisibilissima affermazione che é più importante ripartire sul territorio la capacità di produrre ricchezza piuttosto che le risorse in se, si smentisce CLAMOROSAMENTE SUBITO DOPO, dicendo che la ricetta per superare la crisi è quella di "far ripartire la locomotiva" in modo che possa trascinarsi dietro gli altri vagoni. Non ricordo se ha esattamente usato questa espressione, ma la sostanza è quella. Cari amici, come vedete, il vecchio disegno "Cavuriano" dell'italietta non è ancora cambiato a distanza di 150 anni. La "locomotiva" dell'italietta DEVE sempre essere al nord. Il SUD deve definitivamente rassegnarsi al ruolo di "vagone" trascinato, ma con lo speciale compito di fornire "il combustibile" affinché quel rottame di "locomotiva" possa affannosamente riprendere a camminare. Di rendere tutti "i vagoni" italiani capaci di "trazione propria" manco a parlarne.
Mi chiedo, il governo regionale di centro destra, costituito da forze filogovernative, E' AL CORRENTE DELLA PERPRETAZIONE DI QUESTO PROGETTO CHE ATTRIBUISCE PER L'ENNESIMA VOLTA IL RUOLO DI FANALINO DI CODA ALLA SICILIA????