domenica 23 agosto 2009

"Memorie" di Concetto Gallo, secondo Turri, successore di Canepa: terza parte

Terza parte dell'importante documento gentilmente concesso dal Fratello Santo Trovato.
ANTUDO!SICILIA NAZIONE!W LA SICILIA SOVRANA!


Memorie" di Concetto Gallo, secondo Turri, successore di Canepa. (3a parte)

Storia del Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, raccontata dal comandante dell'EVIS, secondo Turri, successore di Canepa, in una intervista poco nota del 1974.

(Intervista di E.Magri, 1974 - Riproposta nel 2009 sul settimanale "Gazzettino di Giarre" dal Prof. Salvatore Musumeci")

Dal “non si parte” all’eccidio di Randazzo

“La responsabilità dei moti spontanei di protesta per la richiamata alle armi venne addossata ai separatisti. A Catania, in quell’occasione, oltre allo stesso Gallo, furono denunciati all’autorità giudiziaria e processati l’avv. Gaetano Romeo e il prof. Santi Rindone.


«Per tutto il 1944 Catania fu in fermento. Ma non soltanto per il separatismo. C’era la fame e c’era soprattutto il potere centrale che manifestava la sua presenza con un atto odioso: la chiamata alle armi. Ed ecco i due motivi che determinarono i più gravi fatti di quel periodo in città: fatti che vennero attribuiti dal governo centrale all’indipendentismo, il quale, adesso potrei anche dirlo, era completamente estraneo.

L’assalto al municipio di Catania che si disse provocato dagli indipendentisti, ed io fui processato ed assolto per inesistenza di reato, fu, invece, causato da una serie di circostanze. Il sindaco, Carlo Ardizzone, prima indipendentista e poi transfuga perché fatto sindaco dagli alleati, aveva promesso ai pescivendoli l’abbattimento del calmiere. Ma a questo proposito il prefetto, che aveva ricevuto ordini contrari dall’alto, fu irremovibile. Il calmiere non si poteva eliminare. Una commissione di pescivendoli che chiedeva udienza al sindaco venne respinta e la circostanza creò terribili malumori tra la categoria che prese a sostare per quasi tutto il giorno davanti a piazza del Duomo. Più tardi dai quartieri più popolari arrivò una turba di ragazzi che forzò le finestre del comune, e penetrò negli uffici. Poi accadde che prese fuoco una tendina e tutto andò per aria. Io assistetti ai moti da un balcone, nel palazzo dove aveva sede il movimento. E con me c’era Finocchiaro Aprile, casualmente a Catania per una riunione. Qui non ci furono morti.

Il morto, invece, ci scappò in piazza San Domenico davanti al distretto, più tardi, quando una moltitudine di giovani si assiepò davanti al portone per protestare contro le cartoline precetto. Erano quasi tutti universitari che avevano già patito, in borghese, i disastri della guerra. A un tratto da una feritoia del portone spuntò la canna di un moschetto dalla quale partì un colpo che uccise un giovane.

Io stesso vidi una cosa orrenda. Transitando alcuni minuti dopo il fatto dalla piazzetta, vidi un militare che raccoglieva da terra un pezzo di carne insanguinata servendosi di una baionetta. Era il cervello spappolato del giovane.

Ecco, era in quel clima che agiva il Movimento per l’indipendenza della Sicilia. Un clima di rancore contro il potere, contro l’Italia. E questo rancore faceva moltiplicare il numero dei nostri aderenti e le nostre sedi. E ci dava coraggio di compiere certi gesti. Come quando esponemmo la bandiera siciliana, rossa e gialla, dal balcone della nostra sede in via Etnea. Era il 15 ottobre 1944. Immediatamente venimmo denunciati all’autorità giudiziaria.

Il processo venne celebrato al vecchio Palazzo dei Tribunali. Gli imputati eravamo tre: io, l’avvocato Gaetano Romeo e il professore Santi Rindone. Il processo non durò che pochi minuti: il pretore, un nostro amico e simpatizzante, ci assolse “per non luogo a procedere”. Fu il nostro trionfo.

Non c’è da meravigliarsi che un pretore fosse nostro amico. A Catania, in Sicilia, costituzionalmente e concettualmente, non c’era professionista, avvocato, ingegnere, medico che non fosse un indipendentista. Molti che hanno militato e militano in certi partiti erano con noi, dentro di noi. C’erano alcune tendenze ideologiche, tanto è vero che successivamente nacquero il Partito comunista siciliano, aderente al Mis, e il Partito repubblicano con Rindone presidente; ma prima di tutto c’era il Movimento per l’Indipendenza. Il nostro impegno, l’impegno di tutti era, in primo luogo, quello di rendere indipendente la Sicilia. Ottenuta l’indipendenza, la Sicilia avrebbe scelto, attraverso un referendum, la forma di governo che avrebbe retto il paese.
Ed era questa idea che, praticamente, emerse dal primo congresso, che venne tenuto il 28 dicembre 1944 all’hotel Belvedere di Taormina.

Anche a Taormina non ci vollero dare un locale. Io però, mi misi in giro e trovai un albergo semidiroccato, il Belvedere. Pavesai una sala con i drappi giallo e rosso avuti in prestito da un addobbatore di chiese, coprimmo i muri malridotti dell’edificio e lì tenemmo il nostro primo congresso: 28 dicembre ‘44.

Sei mesi dopo, la mattina del 17 giugno 1945, i reali carabinieri ammazzarono tre persone nei pressi di Randazzo, a una quarantina di chilometri da Catania. In quel periodo i conflitti a fuoco tra banditi e forze di polizia erano all’ordine del giorno. Il centro della Sicilia era popolato da bande armate che rapinavano, depredavano, uccidevano. Ogni tanto qualche banda incappava nelle pattuglie della polizia e qualcuno restava sul terreno.

Quei tre, però, non erano dei banditi di “passo”, ma le prime gloriose vittime dell’indipendentismo siciliano. Erano Antonio Canepa, comandante dell’Evis, l’esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia, e due suoi uomini: Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice.

Quella fu la prima volta che la gente, il mondo, sentì parlare dell’Evis, dell’esercito per l’indipendenza della Sicilia. L’Evis, del quale divenni il comandante, era una creatura di Canepa.
Non si può spiegare l’Evis se non si spiega prima Canepa.

Canepa, palermitano, trentotto anni quando venne ucciso, era un professore di dottrine politiche all’università di Catania. Non era un personaggio oscuro. Semmai un uomo irrequieto da sempre. Cominciò nel 1932 organizzando una “marcia su San Marino” insieme col fratello, fatto per il quale venne condannato a morte dalla Repubblica, e finì sinceramente antifascista, ideologicamente di sinistra e indipendentista. Fu lui infatti che durante la seconda guerra mondiale, eseguì alcuni atti di sabotaggio sui treni, atti di sabotaggio che culminano in un temerario attentato all’aeroporto militare di Gerbini, nei pressi di Catania.

Antonio Canepa faceva capo al Mis palermitano, ma aveva una visione veramente globale e geniale del Movimento. Perché alla profonda cultura umanistica e politica assommava anche il coraggio e l’intraprendenza di un vero esperto di sabotaggio.

E proprio perché meglio di tutti riusciva a sintetizzare l’aspetto politico e strategico del Movimento, si convinse di un fatto assolutamente ineccepibile: della necessità di creare un movimento armato che affiancasse la parte politica dell’indipendentismo.

In sostanza Canepa capì quello che non avevano capito tutti gli altri: che il Movimento, schieratosi su posizioni legalitarie, sarebbe corso verso la sua distruzione se non avesse costituito un organismo armato atto non soltanto a tutelarlo, atto non soltanto a rintuzzare la forza con al forza, ma a mettere le grandi potenze davanti al fatto compiuto con un evento eclatante.

Al congresso di Taormina era già venuta fuori questa tendenza. E il dibattito che ne era seguito non aveva trovato tutti d’accordo. Naturalmente non bisogna dimenticare che in mezzo a noi c’erano i «traditori» e coloro i quali, mentre discutevano di Sicilia e di indipendenza, stavano con gli occhi e con le orecchie vigili al Nord, alla piega che stavano prendendo le cose nel continente.

Va detto che, per mantenere la faccia pulita al Movimento, era stata creata la Lega Giovanile Separatista, con presidente nazionale Guglielmo di Carcaci, la quale, sul piano pratico, tattico, strategico, si era arrogata una certa libertà d’azione. Ma la Lega Giovanile non bastò. La repressione diventava ogni giorno più dura. Le sedi venivano devastate da quelli del Mui, Movimento per l’unità d’Italia, e chiuse dai carabinieri reali. Allora, proprio dalla Lega Giovanile venne fuori la Guardia alla Bandiera, dalla quale doveva scaturire il vero organismo armato del Movimento per l’indipendenza della Sicilia. E il 15 febbraio 1945 io ne divenni il comandante per Catania.
Naturalmente noi non sapevamo quello che stavano facendo le quattro potenze a Yalta. Il nostro convincimento era che gli alleati guardavano di buon occhio questo movimento. E tale convincimento nasceva da un dato di fatto e da due episodi di cui sono stato personalmente protagonista: quando arrivarono in Sicilia gli alleati distribuirono un manifestino nel quale si chiedeva ai siciliani se erano per un plebiscito circa l’indipendenza della Sicilia. E non ci fu un siciliano che non disse di sì».

Commento del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

Dal punto di vista politico l’esercito indipendentista aveva un ruolo importantissimo e rientrava in una strategia di ampio respiro. Teneva conto, innanzitutto, della Convenzione dell’AIA del 1907, come sarebbe stato meglio spiegato nel n. 14 di “Sicilia Indipendente”, (qualche mese dopo l’uccisione di Canepa), nell’articolo a firma di Demetrio D’Ambra, che portava il titolo: “L’Evis nel Diritto Internazionale”, ed il sottotitolo: “Il testo della Convenzione dell’AIA - La Sovranità del Popolo Siciliano – La legittimità della lotta”. Nell’articolo si sosteneva che l’Evis possedesse tutti i requisiti della Convenzione, ai fini di godere della Legislazione e delle prerogative previste per gli eserciti regolari in tempo di guerra. La Convenzione prevedeva, infatti, che la milizia o il corpo interessato si trovassero nella seguente condizioni: avere al loro comando una persona “responsabile” per i subordinati; possedere un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; portare apertamente le armi; conformarsi alle leggi ed agli usi di guerra. A ciò si aggiungeva che il campo dell’Evis aveva una grande visibilità ed una segnaletica che ne indicava l’ubicazione.

L’avv. Michele Papa, che nel campo di Cesarò, da giovane fece la propria militanza di volontario, nella sua “Storia dell’Evis” avanza una ipotesi originale diversa ma non in contrasto con la tesi di Demetrio D’Ambra. Sostiene che ogni campo dell’Evis avrebbe dovuto indurre il Governo Italiano a tollerare una presenza armata del Separatismo in attesa di una soluzione politico-militare.

Si era, quindi, di fronte ad un caso di “Low Intensity Warfare”, ossia di guerra a bassa intensità. Un qualcosa di simile a quello che avviene oggi in alcuni Paesi Sud-Americani, nei quali i Governi tollerano, talvolta per lunghissimi periodi, l’occupazione armata di talune zone nelle quali i “rivoluzionari” operano, quasi, incontrastati.

(3. Continua –“Memorie” di Concetto Gallo, da un’intervista di E. Magrì, 1974)

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